Lascia che tutto ti accada: bellezza e terrore.
Si deve sempre andare: nessun sentire è mai troppo lontano…”
Rainer Maria Rilke
Rileggendo questa tesi mi sono accorta di quanto questo diario di bordo sui miei quattro anni di training formativi e di vita segua un flusso di coscienza che asseconda il guizzo delle emozioni e il loro movimento tumultuoso. Le risonanze sono tante e balenano nella testa in tutto il loro luccichio incantatore, come la danza di argentei salmoni su placidi ruscelli.
Comprendo bene, forse solo ora, quanto la mia quasi incosciente scelta di iniziare un percorso formativo in psicoterapia, così lontano dai miei iniziali convincimenti di intraprendere la carriera di psicologa giuridica e criminologa alla ricerca della Verità e del Colpevole, del Giusto e Sbagliato, del Buono e del Cattivo, delle classificazioni e categorizzazioni, sia stata la migliore scelta che abbia mai potuto fare.
Ricordo ancora l’immagine di me al PC che digito su internet le parole “Scuola di psicoterapia familiare”, quando subito balza ai miei occhi la scritta ― Scuola Romana di Psicoterapia Familiare.
Incuriosita, clicco sul link ed entro nel sito.
Do un’occhiata alle voci “Chi siamo – Attività Didattiche e Documentazioni”, leggo velocemente i nomi dei Didatti per capire un po' chi fossero (conoscerli).
Fu proprio in quel momento che Cupido scoccò la sua freccia. Trascorsero meno di quindici minuti e sentii di essermi già innamorata. Presi il telefono e iniziai a digitare i numeri riportati sul sito alla voce “Sedi”. Composi quello della sede di Roma.
Il cuore mi batteva forte, dall’altro capo della cornetta mi rispose la segretaria Valeria.
Le dissi che ero interessata ad avere informazioni sulla Scuola, e lei mi invitò a sostenere il colloquio con il Direttore della Scuola, il Professore Carmine Saccu.
La mattina del colloquio mi svegliai di buon’ora, feci colazione e corsi a prepararmi. Quante emozioni, quante domande si agitavano nella mia mente.
Impostai il navigatore all’indirizzo Via Reno 30 e mi diressi a passo svelto, con la valigetta a tracolla nera sulla spalla. Citofonai ed entrai dal maestoso portone.
Salii le scale e mi fermai al primo piano, lessi la targhetta e compresi che il mio destino mi stava aspettando un piano più su.
Davanti alla porta del secondo piano della Scuola Romana di Psicoterapia Familiare, l’ansia mi venne a trovare. Chissà cosa mi chiederà il Direttore? Non ho ripassato nulla!
Mi fecero accomodare in una saletta, dandomi dei moduli da compilare, in attesa di essere ricevuta dal Direttore. Quell’attesa mi sembrò interminabile. Se avessi avuto con me il Bianconiglio e mi avesse chiesto quanto durasse un secondo, ecco, io avrei risposto: un’eternità (nella frase originale il Bianconiglio chiede ad Alice: “Per quanto tempo è per sempre? A volte, solo un secondo”).
Entrai nella stanza e subito fui attratta dalle chincaglierie che troneggiavano su mensole, scrivanie e divani. Ed ecco finalmente arrivare il Direttore, Il Professor Saccu.
Aveva un’aria ipnotica, a metà tra un grande sciamano e un esploratore. Il suo maglione rosso faceva da sfondo, esaltandoli, a strani ciondoli: un dente di tigre, un occhio di Ra e un piccolo e bizzarro imbuto d’argento. Non sapevo che questo piccolo ciondolo avrebbe rappresentato, metaforicamente, uno degli strumenti più importanti della mia formazione.
Dopo le iniziali presentazioni e alcune domande circa il mio percorso di studi universitari, le mie passioni e le aree tematiche di interesse, il Professore mi chiese da dove venissi e quale fosse il mio piatto preferito. Un piatto che parlasse della tradizione della mia famiglia e avesse i profumi e le caratteristiche della mia terra. A questa domanda rimasi piacevolmente sbalordita.
Ci pensai un secondo e consegnai al Professor Saccu la ricetta del mio piatto preferito: “La pasta a lu sparone” di Nonna Rosetta, tipica ricetta abruzzese delle domeniche in famiglia e dei giorni di festa
Io, amante come sono dell’enogastronomia e della storia delle ricette regionali ed internazionali, rimasi affascinata ed incantata da quell’incontro.
Dal primo colloquio sistemico avuto con il Professor Carmine Saccu, mi resi subito conto che quella fosse proprio la Scuola adatta a me. Mai, nella mia vita, avevo fatto una scelta così giusta.
Mi ero sentita accolta e avvolta in un alone di magia e mistero.
Quella Scuola racchiudeva in sé tutto quello che da sempre aveva catturato la mia attenzione e vivificato la mia fantasia: la mia passione per la giuridica, con il corso in mediazione familiare, il lavoro con le famiglie, con i bambini e egli adolescenti, le tematiche e le dinamiche dell'adozione.
Ma fiore all’occhiello risultava essere, soprattutto, la grande attenzione rivolta all’allievo.
L’interesse rivolto a conoscere gli aspetti della sua vita, le sue origini e le tradizioni della sua cultura di appartenenza, le sue passioni e le sue capacità. Aiutarlo a scoprire le proprie potenzialità, mettendo in evidenza la ricchezza del proprio mondo interiore, a partire dalle proprie esperienze e capacità, dalla propria soggettività e unicità.
Un viaggio alla scoperta del sé del terapeuta e del suo senso
Scrive Whitakher nel suo libro Considerazioni Notturne di un Terapeuta della famiglia: “Uno psicoterapeuta è qualcuno che si può odiare senza provare sensi di colpa. È una di quelle persone con le quali si può essere completamente se stessi e, ciò nonostante, venire accettati; o, guardando la cosa da un altro punto di vista, probabilmente un terapeuta può sopportare che un paziente, per circa un’ora a settimana, sia totalmente se stesso. Osare rivelarsi a qualcuno rende più facile approfondire la conoscenza di se stessi.”
Questa non è forse una tesi convenzionale, ma più una storia della ricerca del proprio luogo.
Ma com’è fatto il proprio luogo?
Con questa domanda entro nel vivo del mio viaggio.
Esso attraverserà molte terre che mi porteranno a scoprire e comprendere gradualmente, attraverso l’esperienza vissuta, quale sia la mia terra, la terra germinativa della mia pianta.
Alla ricerca di sé stessi…
Il mio pellegrinaggio alla ricerca di me stessa, alla scoperta e comprensione del mio vero Sé, iniziava a partire da quella ricerca sul Web.
Il mio processo di crescita e di evoluzione come individuo, allieva e futura psicoterapeuta aveva avuto inizio a partire dal nome di quella scuola, dalla mia determinazione nell’andare a Roma per sostenere quel colloquio e dalla ricezione di quella lettera di ammissione.
29 ottobre 2015: Ufficialmente allieva della Scuola Romana di Psicoterapia Familiare, della Scuola, che mi ha permesso di conoscermi e di formarmi, prima di tutto a partire da me stessa come persona.
Scrive Salvator Minuchin nel suo libro Famiglie e terapia della famiglia: ”Nella misura in cui ho imparato ad accettarmi e a riconoscere i campi in cui non cambierò mai, ho sviluppato un senso di rispetto per la diversità con cui la gente affronta i problemi umani.”
L’attenzione rivolta al terapeuta e all’esplorazione del suo mondo, l’utilizzo del sé e dei propri vissuti come strumento di terapia; il considerare il sintomo come un’opportunità e non come un’erbaccia da estirpare, mi avevano da subito affascinata e piacevolmente sorpresa. Quest’approccio e questa visione sistemica, uscivano fuori da quelli che erano gli schemi di riferimento dogmatici delle teorie psicologiche e delle metodologie terapeutiche finora conosciute e apprese nel corso della formazione universitaria e dei tirocini, che vedevano spesso la figura del terapeuta ergersi dall’alto di una visione onnipotente e pedagogista, come il dispensatore di Verità Assolute da offrire al paziente.
La capacità di giocare con la famiglia, di usare l’umorismo e il linguaggio delle metafore tipiche del modello sistemico relazionale, simbolico esperienziale, mi avevano semplicemente entusiasmata. Queste parole si sovrapponevano ai racconti ipnotici del Professor Saccu sui miti, le leggende e le storie di vita personali e terapeutiche da lui vissute e romanzate nei training formativi.
Permettere alle persone, terapeuta incluso, di entrare in contatto profondo con le parti del sé più nascoste o alterate da modalità relazionali disfunzionali, schematiche, ripetitive ed improduttive, per riattivare un processo che dia spazio alla crescita e all’individuazione, facendo riemergere gli aspetti vitali e creativi della persona. Darsi la possibilità di stare nelle cose, nel proprio tempo e spazio, lasciando espandere il proprio spirito, la propria essenza.
“Un’essenza comune: Il proprio. Proprio nella stessa misura in cui il terapeuta, in quanto terapeuta, deve perfezionarsi come tecnico ed individuarsi come uomo, così anche l’allievo in formazione deve potersi condurre verso l’individuazione, verso il suo proprio, il suo luogo proprio e sapervi soggiornare. Sapersi tenere nel proprio.”, come ci ha insegnato e trasmesso nel suo scritto la Professoressa Cotton.
Il maestro non può insegnare pensieri, ma deve insegnare a pensare .Questo è quello che scriveva Immanuel Kant ma che il Prof. Bucci applica costantemente nella sua didattica e nei nostri training.
Io avevo scelto di seguire i Magi, i quali si erano incamminati senza avere neanche loro dei riferimenti precisi ma lasciandosi guidare da una Stella e dai pastori. Dovevo uscire dall’ottica del guardare alla realtà secondo un principio di causa effetto, una logica ed uno sguardo meramente lineare che utilizzava delle mappe già precostituite, ma aprire il mio sguardo alla complessità delle interazioni.
Seguire la causalità, una circolarità, una logica sistemica in grado di girare lo sguardo e di integrare senza escludere.
Uscire dalla logica dei nove punti e usare la creatività, lasciare le certezze del predeterminato.
Forse non dovevo far altro che liberarmi da tutti quegli orpelli dettati da un logica di pensiero lineare e precostituito e non affidarmi più solamente ad una visione deterministica delle cose, superba di conoscere già tutto, di avere le risposte, di fornire la verità assoluta.
Nell’ottica sistemico-relazionale è fondamentale, come scrive Carlos Sluzki, imparare a lasciar cadere continuamente le certezze e accogliere nuovi modelli e concetti. Lo psicologo relazionale, nell’incontro con l’altro, non ha certezze predefinite e verità assolute ma delle ipotesi. Dovrà quindi poter accogliere punti di vista sempre nuovi ed imparare ad ascoltare e valorizzare le singole voci ponendosi in sintonia con i diversi linguaggi proposti dagli interlocutori.
Lo psicologo relazionale dovrà sviluppare la capacità di ascoltare il linguaggio delle altre culture, del background di provenienza, senza perdere di vista il proprio linguaggio ma evitando di costringere l’altro ad entrare nelle sue griglie interpretative.
Questa volta non avrei dovuto dare ascolto al proverbio “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova”, ma abbandonare la mia comfort zone delle teorie e delle tecniche già preconfezionate e lasciarmi guidare dalla più grande Maestra, la Vita. Dovevo fidarmi di me e di quello di cui avevo fatto esperienza nell’incontro con le esperienze di vita dei Re Magi stessi e degli altri giovani avventurieri che, come me, si erano già messi in cammino.
L’importanza di raccontare le storie con nuovi colori e non assumersi le responsabilità dell’altro
Scriveva Bradford-Keeney nel 1983: “Nella terapia sistemica emergono storie e storie su storie. Le storie rivelano la visione del mondo della famiglia (…). Il terapeuta lavora sulle storie che vivono le persone, sulle storie di queste storie. La conversazione terapeutica è uno scambio di storie.
Questo è uno dei tanti insegnamenti conosciuti e appresi durante i training formativi con i nostri Docenti: Il Professor Saccu, la Professoressa Cotton e il Professor Bucci.
Il Professor Saccu ci ha insegnato ad osservare e attraverso i suoi racconti osservare e comprendere la figura del terapeuta e il suo ruolo. Il terapeuta “È un cantastorie nel senso che sentiamo le storie che ci raccontano e poi le riraccontiamo con un altro colore. Questa è la nostra specialità. Spesso le storie che ci raccontano sono storie dipinte di viola, di nero, e noi le ascoltiamo e poi le riraccontiamo con un altro colore, o verde o rosa, o arancione o giallo. E i pazienti che ci ascoltano si trovano improvvisamente due colori in mano: quello che hanno sempre raccontato e questa nuova forma di raccontare la stessa storia.
Se vogliono rimanere nel colore e raccontarlo così come l’hanno raccontato, possono sempre raccontarlo, non c’è cambiamento. Se invece cercano o sentono di vedere la propria storia raccontata in maniera diversa con un altro colore, si muove qualcosa. Si muove qualcosa che non tocca solo la persona ma tutti i personaggi che sono all’interno della storia. Questo significa essere liberi, perché colui che può scegliere è libero. E questo significa che noi non abbiamo per forza il compito di cambiare le persone. Noi gli diamo l’opportunità di scegliere se vogliono cambiare e li accompagniamo in questo percorso. Questa è la prima regola fondamentale di ogni terapista”.
Scrive Martin Heidegger: “La vera cura è mettere l’altro in condizione di prendersi cura di se stesso, questo è il senso della terapia e questo bisogna perseguire”.
Questo è quello che ho appreso nell’osservazione e nel lavoro con il Professor Bucci durante i training formativi nei quali ci invitava a ricordare di usare sempre risposte creative a situazioni imprevedibili. Ci invitava a non prenderci “la patata bollente” lanciata dal singolo paziente o dall’intera famiglia, affidandoci i loro problemi senza far nulla per lavorarci, ma restituire a loro la responsabilità, la libertà di scelta.
Non dobbiamo accogliere il ruolo delegante, dato dai pazienti, di detentori della loro salvezza della loro guarigione ma, dobbiamo metterci a loro fianco e aiutare a dar loro la possibilità di avere un nuovo sguardo su sé stessi, darsi la possibilità di raccontarsi nuove storie, le storie della loro vita con colori e lenti diverse.
Bisogna aiutare il paziente a riscoprire il senso che le cose hanno per lui, per il suo sistema, aiutarlo a riprendersi la responsabilità delle proprie azioni e non rimanere cristallizzato, bloccato in un ipotetico “tempo passato”.
Come dice la Prof.ssa Cotton, bisogna aiutare il paziente a scongelarsi, a rompere il ghiaccio e uscire fuori dalla cristallizzazione della propria funzione, dell’immagine creata per riappropriarsi della propria libertà e responsabilità.
Ricordare che non si può modificare il passato, questo sarebbe un pensiero onnipotente. La cosa importante è che si sia deciso di vedere invece di non vedere. Solo così si potrà essere perché per poter essere è necessario aprirsi, mettersi in relazione e non chiudersi. Questo è riuscire ad apprendere dalle proprie esperienze e migliorare la propria condizione. Essere presenti a sé stessi e aiutare l’altro ad esserlo per sé, a fare con sé. Ripetersi sempre: “Io con te, tu con me, tu con te, tu con loro”.
Ricordate sempre che cos’è l’individuazione. Ognuno è paziente e terapeuta di sé stesso e con sé stesso. Sono le distintività di ciascuno di noi che ci aiutano. Si entra nella complessità sempre distinguendo.
“Ognuno di noi come una pianta che sorge dalla propria terra. La terra, l’humus, è l’indifferenziato; la pianta, quanto di più distinto viene dalla terra.” (…) La terra ci compete quanto la pianta. La terra è quella dimensione relativamente indistinta e proprio perciò, germinativa.”
Colgo l’occasione, nelle mie frasi di conclusione, di riservare ai Professori della Scuola e alla famiglia, seguita a scuola (con la supervisione del Professor Saccu), i miei più cari ringraziamenti per avermi concesso, con le loro storie e le loro dinamiche, di apprendere molto e di scoprire aspetti importanti di me come persona, allieva e futura psicoterapeuta.
Concludo il mio scritto con le parole di Carl A. Whitaker. Il motivo della scelta del titolo della mia tesi si condensa tutta nelle parole riportate da Whitaker nell’emblematico titolo del paragrafo (Il mio sistema delirante: ―Il manifesto di Whitaker) tratto dal suo manuale Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia.
“Ognuno di noi si muove nell’ambito di un sistema di convinzioni, la maggioranza delle quali, pur non essendo apertamente dichiarate, determinano il nostro modo di vivere e le nostre relazioni con gli altri. Vorrei dire qualcosa a questo proposito.
Prima di tutto, niente che valga la pena di imparare può essere insegnato. Tutto deve essere scoperto da ognuno di noi. Questo processo di apprendere ad apprendere, di scoprire la propria epistemologia, il proprio modo di affrontare nuove scoperte, nuovi pensieri, nuove idee, nuove opinioni, richiede una lunga lotta per riuscire a sviluppare sempre meglio ciò che siamo.
Tillich ha scritto un libro intitolato ―Essere è divenire. Questo titolo è stato per me un koan. Per molti anni mi sono chiesto cosa volesse realmente significare, finché all’improvviso tutto è diventato chiaro: agire è un modo per impedirsi di essere, nel senso che se ci si dà abbastanza da fare, non si è obbligati a essere qualcuno. Si può cercare, con sempre maggior impegno, di diventare qualcosa di diverso da quello che si è: sempre migliori, sempre più potenti, sempre più simili a qualcun altro e sempre meno simili a ciò che in passato abbiamo scoperto di essere.
Ma essere è divenire ,vuol dire che si deve imparare a essere totalmente ciò che si è.”
A lungo durerà il mio viaggio.
A lungo durerà il mio viaggio
e lunga è la via da percorrere.
Uscii sul mio carro ai primi albori
dei giorno, e proseguii il mio viaggio
attraverso i deserti dei mondo
lasciai la mia traccia
su molte stelle e pianeti.
Sono le vie più remote
che portano più vicino a te stesso;
è con lo studio più arduo che si ottiene
la semplicità d'una melodia.
Il viandante deve bussare
a molte porte straniere
per arrivare alla sua,
e bisogna viaggiare
per tutti i mondi esteriori
per giungere infine al sacrario
più segreto all'interno del cuore.
I miei occhi vagarono lontano
prima che li chiudessi dicendo:
«Eccoti!»
Il grido e la domanda: «Dove?»
si sciolgono nelle lacrime
di mille fiumi e inondano il mondo
con la certezza: «Io sono!»
RABINDRANATH TAGORE