La storia rappresenta un concetto chiave nella terapia sistemica. Ogni famiglia ha la propria storia, ogni membro familiare ha la propria storia, ma anche ogni terapeuta ha una propria storia, ed è la propria storia che lo guida nell'osservazione, nell'agire in terapia, nella conduzione della terapia, nel proprio lavoro terapeutico.
Avevo 30 anni quando ho intrapreso il percorso formativo come psicoterapeuta familiare nella Scuola Romana di Psicoterapia Familiare.
Laureata da 3 anni con una tesi sperimentale sul Bonding (la prima relazione madre-bambino), avevo fino a quel momento coltivato il mio interesse per il sostegno alla genitorialità e fatto numerose esperienze a riguardo, e frequentato anche un corso triennale di counselling in approccio dinamico-integrato.
Il sostegno alla genitorialità è un sostegno pragmatico fatto di tecniche da insegnare, empatia, condivisioni, vicinanza, individuazione del problema e risoluzione a breve termine. Il counselling è una modalità di relazione d’aiuto dove è primario demitizzare il counselor che è esterno al sistema osservato, dove bisogna condurre il cliente verso una soluzione pragmatica, a breve termine, oggettiva, partendo da un’esperienza passata funzionale.
E’ con questa valigia degli attrezzi che ho cominciato a incontrare i miei primi pazienti, protetta e rassicurata dal sapere cosa dover fare per “soccorrere” l’altro che mi chiedeva aiuto.
Ma sentivo che non mi bastava, sentivo spesso l’esigenza di voler osare, voler creare, ma soprattutto di voler “dare di più” all’altro, perché percepivo che a volte le sole parole, le indicazioni, le spiegazioni, non riuscivano a far fare al paziente “esperienza” di quella visione alternativa necessaria a raggiungere il benessere cercato, perché come indica Whitaker “Tutto ciò che vale la pena di sapere non può essere insegnato” (Whitaker, 1989).
Così ho cominciato a cercare una scuola che più rispondesse a questo mio desiderio di mettere in gioco me stessa nella relazione con l’altro.
Ho scelto questo approccio forse da sempre, fin dall’inizio del mio percorso universitario, probabilmente per lo stesso motivo per il quale ho scelto la facoltà di Psicologia: è la stessa strada intrapresa da mia zia, la sorella piccola di mia madre e la mia sorella maggiore, il mio modello, il mio punto di riferimento.
Oggi, dopo un percorso di quattro anni, posso affermare a gran voce che questo è il “mio” approccio, come un vestito fatto su misura per me. Io credo nel sistemico-relazionale-simbolico-esperienziale, di come si possa fare esperienza del cambiamento già in seduta all’interno della relazione, dell’incontro che avviene con il paziente, con la famiglia, attraverso le domande relazionali, il linguaggio simbolico, l’uso del non verbale, il gioco, il fare concreto in seduta, il genogramma, la creatività, l’umorismo, il silenzio…, l’impiego di se stessi.
“Decisione coraggiosa e impegnativa”- mi disse il prof. Saccu, considerando che arrivavo da Foggia e lui ben immaginava che in quattro anni molte cose sarebbero cambiate! Io invece, carica dell’entusiasmo e delle aspettative nei confronti di questo nuovo percorso, ero convinta di riuscire a gestire l’impegno gravoso di viaggiare tre volte al mese o più da Foggia a Roma (città nella quale abita mia zia), lavorare, ed eventualmente accogliere nuovi membri nella mia neo-famiglia da poco costituita. Infatti da lì a poco avrei deciso di trasferirmi nella sede di Napoli p er riuscire meglio a gestire lavoro e famiglia che nel frattempo si era allargata con la nascita del mio primogenito Francesco. Durante il training è nata poi anche la secondogenita Miriam.
“Esperienziale” è uno dei termini che definiscono il nostro approccio terapeutico, e vorrei chiarire cosa significa per me: sono arrivata in questa scuola con “un’idea” di cosa avrei dovuto fare, ma “a partire da…” questa idea ho fatto ”Esperienza” di tutt’altro, ho sperimentato cosa significa “Essere presente” a me stessa, alle mie emozioni, al mio qui ed ora. Il mio caro fedele inconscio mi ha guidato verso questa “esperienza”, che credevo di conoscere bene e poter controllare.
Emisfero destro ed emisfero sinistro in un continuo complesso dialogo nel quale il sinistro era decisamente più allenato e ascoltato. Ero abituata ad utilizzare preferibilmente l’emisfero sinistro,con uno stomaco che sin dall’infanzia si stringeva per esprimere la necessità di contenimento di ciò che non permettevo all’emisfero destro di ascoltare e sul quale dialogare con il sinistro.
Ricordo al riguardo, la mia prima giornata di lezione teorica con il Prof. Saccu, durante la quale egli ci spiegava che l’emisfero destro è collegato con lo stomaco il quale ha bisogno di sicurezza; quando non abbiamo una forma che ci contiene, entriamo in ansia: abbiamo bisogno di definire, il bisogno di dare significato alle immagini e di avere una forma di contenimento ci spinge verso il centro.
E’ stato un percorso, un viaggio ricco di incontri con me stessa, con la mia famiglia, con i didatti, con i pazienti, con il gruppo delle “Saccottine”, il gruppo delle figlie edipiche, che hanno negato fino all’ultimo giorno di training di aver scelto implicitamente questo nome sin dal primo anno, perché non piaceva a tutte, ma quando fu messo come nome del gruppo whatsapp, nessuno ha dissentito.
E all’inizio di questo elaborato finale, voglio ringraziare ognuno e tutti per esserci stati, perché ogni “incontro” è stato dono prezioso in questo SENSO, in questo sentiero, in questa via che ho percorso e percorro ogni giorno come Donna e come Terapeuta.
Al termine delle giornate di training la nostra didatta Marianne Cotton ci ha donato un suo scritto sul “Senso del Terapeuta”, e la ringrazio immensamente, del quale voglio riportare la parte per me essenziale:
“TERAPEUTA dal greco “Therapèuo”. Servo, serbo, accudisco, venero, attendo, assisto, ristabilisco. Curioso…siamo sempre chiamati ad una sollecitudine, siamo sempre, in fin dei conti, terapeuti di qualcosa in quanto umani.…Nella lingua tedesca, il termine “beruf” sta ad indicare “mestiere”, professione come vocazione. “Ruf” è invece chiamata…Il terapeuta è colui che risponde a quella chiamata fatta all’uomo, dove compare in un modo certamente specifico, una vocazione comune all’umano. In sintesi, il terapeuta è interpellato proprio in quanto umano, perché l’uomo è interpellato proprio in quanto terapeuta. La bellezza e fortuna di un tale mestiere” (cit. M.Cotton).
Ecco queste parole esprimono perfettamente ciò che io ritengo sia il mio essere Donna e il mio essere Terapeuta, (e mi scuserà la mia didatta se ho deciso di appropriarmene per darne una mia lettura): una vocazione, il rispondere alla chiamata fatta all’uomo, fatta a me donna in quanto terapeuta. Ma il mio essere donna, la mia vocazione, è anche risposta alla chiamata in quanto moglie, in quanto madre, in quanto sorella, in quanto figlia, in quanto credente e praticante una fede religiosa. E’ su questo “umus”, in questa terra esperienziale, che sorge ogni giorno il mio Sé, le mie relazioni, il mio essere terapeuta.
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E’ stato emozionante e soprattutto illuminante poter guardare con un nuovo sguardo relazionale la mia famiglia d’origine, “essere presente” a me stessa, alle mie emozioni, al mio qui ed ora in modo da riuscire a vedere e riflettere sulla mia vita, sulle mie esperienze, sul mio stile privilegiato di interazione, le mie zone d’ombra, le mie zone di sicurezza, così da poter mettere questo mio essere “esperto incerto” al servizio delle famiglie che mi interpellano in quanto terapeuta.
Al termine delle tre giornate di training dedicate al mio genogramma, e dopo averne rivisto le registrazioni, credo di aver individuato alcune certezze e alcuni preconcetti e ostacoli che porto nella mia valigia del terapeuta e che voglio evidenziare ulteriormente:
SICUREZZE
- ognuno è frutto di molteplici esperienze relazionali con altri significativi,
- l’altro cambia se io cambio, perchè cambia la relazione, cambio io nella relazione,
- esistono molteplici punti di vista e lo spostamento di prospettiva va a cambiare il significato. Esiste l’utilità e non una verità assoluta.
- io “devo” prendermi cura dell’altro e nel farlo mi sento bene
OSTACOLI
- il mio agire dipende da quello dell’altro, affido all’altro l’esito della relazione (è colpa di o merito di…se io…),e anche dello scambio comunicativo, perché io non esisto se non in una condizione di fusionalità con l’altro significativo, “vorrei ma non posso”.
- non prevedo zone d’ombra in me e negli altri,
- ho difficoltà nel gestire emozioni negative come la rabbia e la frustrazione, decidendo di non volerle chiamare per nome.
E’ con questa valigia che concludo il mio percorso formativo di specializzazione in psicoterapia familiare, una valigia piena di saperi, di esperienze, di incontri, ma anche piena di domande, tante domande da porre sempre e ancora durante ogni incontro e relazione che la vita mi donerà, sia come donna che come terapeuta. Perché io non sono un Esperto, non ho concluso il mio viaggio, l’ho appena iniziato e, come dice Minuchin (2014), sono un’ “esperto incerto” che non conosce tutto ed è curiosa di imparare dagli altri, dal nuovo, ammettendo la propria ignoranza.
Dott.ssa Maria Cristina Piemontese