Non esistono osservatori puri,
pertanto l’osservatore
deve osservarsi e comprendersi
proprio mentre
compie la propria osservazione
Edgar Morin
Cos’è che ci guida nelle scelte importanti della nostra esistenza? L’inconscio, gli eventi, la sorte o il libero arbitrio? Forse tutto questo insieme oppure a volte l’uno a volte l’altro.
Più volte ho espresso il mio soddisfacimento per la scelta della Scuola Romana di Terapia Familiare, dal colloquio motivazionale alla fine del training è stato un crescendo di esperienze e di emozioni. È stata una scelta fatta con la “pancia” ma la relativa “testa” vi si è collegata perfettamente.
Ritenevo e ritengo che la Scuola giusta non potevo sceglierla solo in base a criteri di tendenza del momento, o di successo e “serietà”; nemmeno in base ad un possibile risparmio economico, oppure per solo interesse culturale, ma per tutto questo e soprattutto per una reciprocità e sintonia tra la Scuola e le mie caratteristiche di personalità.
La peculiarità della Scuola Romana (e del suo modello sistemico – relazionale, simbolico - esperenziale) di porre l’attenzione alle dinamiche familiari, accompagnata dall’analisi del vissuto del terapeuta, si è rivelata per me fondamentale come l’offerta formativa che dava particolare rilevanza alle risonanze interne dell’allievo, sia nella ricchezza di osservazioni cliniche che nel contesto del gruppo di formazione.
Ed è proprio nel gruppo che si apprende attraverso l’articolazione di funzioni e ruoli che permettono a ciascuno di misurarsi con il problema fondamentale della vita sociale: la relazione con gli altri e il rapporto tra unione – individuazione (Saccu, 1983).
“Il libro su cui studiamo è il gruppo”, mi disse il prof. Saccu durante un’intervista a cui lo sottoposi, che sarà oggetto di un prossimo lavoro sulla formazione che sto attuando insieme al “Gruppo Pensante” di Specializzandi in Psicoterapia Sistemico-Relazionale ed al tutor Dr. L. Picciarella della ASL/RME Unità Operativa – Disturbi del Comportamento Alimentare.
È stato impegnativo condividere un processo di crescita con il gruppo, partendo da una con-fusione iniziale, quando era importante sentire l’appartenenza, passando per i conflitti e la formazione di sottosistemi, per arrivare alla differenziazione. “Apprendere ad apprendere”(Bateson, 1977); da quando mi sentivo una “cernia” che si nasconde dietro gli scogli e cerca di farsi coinvolgere il meno possibile, passando per una fase di rabbia per non avere abbastanza spazio (anche perché c’è chi ne abusa), a capire che lo spazio bisogna conquistarselo… fino ad essere definita “saggia”… ne sono passati di ruoli e funzioni!
Che dire del nostro gruppo tutto al femminile, o meglio del gruppo che ha fatto fuori l’unico maschio (maschio sì, ma patologico)? Ci vorrebbe una tesi a parte, ma è interessante sottolineare una ridondanza nella mia storia: lavoro in un Istituto di riabilitazione psichica solo per donne, e dove tutte le dipendenti sono donne; ho frequentato gruppi sportivi con tutte donne; ho svolto il tirocinio post-laurea in un gruppo tutto al femminile come il gruppo di specializzazione. Sarà che ho un debito con il mio ‘femminile’ che durante l’adolescenza è stato un po’ contrastato grazie alla competizione con mio fratello?
Oltre a tutto la preziosa supervisione diretta e indiretta di tutti i Didatti (il dr. Bucci, la dr.ssa Cotton, la dr.ssa La Mesa e il prof. Saccu) ha contribuito a darmi sicurezza, a connettere tante parti, partendo da una mescolanza disordinata per arrivare ad una fase di chiarezza e comprensione, da una visione lineare ad una circolare, integrando i modelli e lavorando a diversi livelli di complessità.
Un notevole contributo a tutto questo è derivato dalle esperienze di tirocinio. Mentre aspettavo la convenzione con l’Unità Operativa – DCA, si aprono diverse opportunità alla ASL/RM-B e così inizia la mia avventura al Servizio Materno Infantile, sotto la supervisione della dr.ssa Annalisa Bisson, e con la ‘tranquillizzante’ compagnia di una collega del gruppo.
Un’opportunità favolosa di esperire a molti livelli: attraverso la rassicurante e fiduciosa intesa con la dr.ssa Bisson che mi ha fatto capire quanto sia bello e gratificante lavorare con i bambini cercando di prevenire in loro disturbi più gravi da adulti; attraverso l’opportunità di partecipare come osservatore alle riunioni d’equipe del Servizio, cercando di studiarne le dinamiche; ma soprattutto per la possibilità di vedere le famiglie in coterapia con la collega del gruppo, dr.ssa Angela di Rienzo (affettuosamente co-co) grazie all’esistenza nella struttura di una stanza con specchio unidirezionale usata, fino ad allora, per la mediazione familiare.
Mi sono trovata talmente bene in quel tirocinio che lo sblocco della convenzione con l’Unità Operativa - DCA ha creato in me un conflitto: che fare… lasciare un posto eccellente per inseguire un sogno? Ma anche i sogni sono importanti, così ne ho parlato, tra gli altri, con la dr.ssa Bisson, che anche in quel caso si è rivelata un’eccellente tutor. Ho deciso quindi di cambiare, continuando però con le terapia già iniziate (dovere etico - professionale, ma soprattutto piacere!).
Sicuramente diversa nelle modalità, ma ugualmente stimolante e gratificante, la nuova esperienza di tirocinio alla ASL/RM E, presso l’Unità Operativa per i Disturbi del Comportamento Alimentare, sotto la supervisione del dr. Luciano Picciarella, che conduce proprio l’ambulatorio di Terapia Familiare!
Innanzitutto l’occasione di vedere tante famiglie in coterapia con il tutor e di discutere tutti i casi in riunioni cliniche con un gruppo di tirocinanti provenienti da diverse scuole. In un contesto più esperenziale che didattico è stato possibile mettermi alla prova, mostrare le mie competenze, attivare capacità autoriflessive, smontando pian piano il senso di inadeguatezza e la difficoltà ad intervenire ed anche accendere una (sana?) competizione.
Inoltre, il gruppo eterogeneo in cui ogni tirocinante ‘tifava’ per la propria scuola, ci ha indotto a interrogarci sulle differenze tra le varie scuole e modelli teorici, è stata così elaborata un’intervista per i capiscuola (Andolfi, Loriedo e Saccu) che abbiamo condotto e su cui stiamo attualmente lavorando con il tentativo di conoscere e approfondire per poi integrare, cercando soprattutto di superare le appartenenze e i pregiudizi.
- La coterapia
La coterapia è un’importante capitolo del mio percorso formativo, ne parlo a questo punto perché è con questo caso che si concretizza la sua pratica.
Whitaker (1990) esaltava i pregi della coterapia come: “la libertà di mettersi da parte e guardare quello che sta succedendo, la libertà di coinvolgerti e di non essere spaventato da ciò che sta succedendo a te e al paziente. Un terzo vantaggio, non riconosciuto, è che la coterapia serviva anche come mezzo segreto per imparare a parlare delle esperienze emotive, perché ci permetteva di oggettivare le esperienze soggettive, condividendole con qualcun altro.” Inoltre si può “… discutere insieme la terapia con il vantaggio dell’esperienza condivisa.”
Secondo lui, il processo di crescita dei pazienti, così come quello dei bambini, viene distorto se è affidato a un solo genitore… “per questo motivo preferisco lavorare con un coterapeuta. C’è qualcosa di misterioso connesso con la coterapia; ci sono due persone, proprio come ci sono due persone che allevano un bambino.”
Quindi, lavorando insieme, due terapeuti sono in grado di rinforzare le loro esperienze terapeutiche comuni.
Boszormenyi-nagy (1988) scrive a proposito: “idealmente un’equipe eterosessuale facilita il processo di delineamento delle dimensioni dei ruoli maschile e femminile – differenze e somiglianze, complementarietà, capacità di equilibrare vicinanza e distanza. Devono esservi fiducia e rispetto: la rivalità, la competitività e le lotte di potere possono interferire con un buon funzionamento dell’equipe. Tuttavia, minimizzare l’esistenza di queste emozioni e negare che talvolta queste emergano significherebbe dire che i terapeuti sono dei superuomini. Invece il punto importante è il modo in cui queste emozioni vengono affrontate e gestite. Se sono gestite in modo costruttivo, si fornisce un modello per riconciliare le discrepanze. Le famiglie sono degli esperti nel dividere in due l’equipe, e questo va continuamente affrontato sia dall’equipe stessa che dai membri della famiglia. Questo vale anche quando i coterapeuti sono dello stesso sesso, benché le forme di espressione varino.
[…] Nell’equipe di coterapia devono esistere ulteriori dimensioni. Una di queste è la capacità di complementarità, che richiede una quantità inusuale di flessibilità e creatività tra i coterapeuti. […] Un solo terapeuta potrebbe essere ingannato e dolorosamente escluso da una famiglia collusivamente ostile. Due terapeuti possono rivolgersi l’uno all’altro per un approccio più riuscito.
Entrambi i terapeuti sono disponibili alla famiglia per un ascolto empatico, interesse e maggiore comprensione di sé e dell’altro. In ogni seduta uno di essi può rispondere attivamente a livello verbale, mentre l’altro è passivamente attento ma ascolta e nota il comportamento non verbale. Anche questa è una posizione complementare. Benché ciascun terapeuta entri ed esca a sua volta dal sistema familiare, scoprendo le strategie nascoste della famiglia, i due terapeuti devono sempre rimanere disponibili l’un l’altro. Solo se formano un gruppo unito possono facilitare il processo di terapia.”
Il prof. Saccu, nella succitata intervista, afferma di non avere un modello specifico di coterapia ma la ritiene un’opportunità, una modalità possibile: “l’importante è che si sappia cosa si sta facendo, se dovesse capitare, tutto quello che emerge può essere elaborato, discusso, e riconfrontato.”
Angela ed io, forse, non sapevamo ancora cosa stavamo andando a fare quando la tutor (dr.ssa Bisson) ci propose di condurre insieme alcune terapie familiari, ma accogliemmo con entusiasmo la sua proposta.
Indubbiamente essere in due ci ha creato meno ansia, ma non perché pensavamo all’altra come un paracadute (per questo c’era la tutor dietro lo specchio), piuttosto perché ci sentivamo ben affiatate e pensavamo che due persone ascoltano e vedono meglio di una.
Siamo state fortunate perché collegate inconsciamente e, malgrado la poca esperienza, abbiamo evitato le trappole che spesso le famiglie possono mettere in atto per dividere l’equipe terapeutica. La nostra alleanza era naturale e, andando avanti è cresciuta diventando complicità e complementarietà, proprio come dicevano i maestri (Whitaker, Boszormenyi-Nagy e altri). Mentre una parlava, l’altra osservava con discrezione, non solo quelli che parlavano, ma anche il modo di relazionarsi dei singoli membri della famiglia, tra di loro e con il terapeuta che stava parlando. Alla fine discutevamo insieme quanto emerso oppure ci incontravamo per rivedere insieme il nastro, il tutto senza competizione o rivalità.
Naturale che la sintonia lavorativa si trasformasse in amicizia, scoprendo che l’alleanza inconscia derivava anche da simili esperienze di vita. Grazie al tirocinio, è nata una bellissima collaborazione, una preziosa risorsa che spero di non perdere.
CONCLUSIONI
A noi sistemici piace fare connessioni e le facciamo continuamente: tra persone, tra generazioni, tra una famiglia e l’altra. E ai simbolico – esperenziali piace ancora di più, soprattutto connettere alla storia personale e al Sé del terapeuta.
Accomuna le famiglie scelte per questa tesi, un forte vissuto di perdita che aveva fermato la loro evoluzione, laddove, in entrambe ci sono numerosi aborti e morti premature.
Dei miei lutti e risonanze ho già raccontato, un altro parallelo con la mia storia familiare è certamente la gestazione gemellare di mia madre, al cui parto è sopravvissuto solo uno dei due gemelli. Questo evento ha sicuramente condizionato tutta la famiglia: l’iperprotezione di tutti verso mio fratello e la mia sensazione di essere trascurata (che mi ha permesso però di essere più libera). Nascevo anch’io infatti in una situazione di lutto e depressione di mia madre (per il gemello perso e per la madre ammalata) e la relazione che si era creata non è stata sempre facile.
Tuttavia, quello che ho sempre creduto un mio ‘punto debole’, sta divenendo un ‘punto di forza’, grazie alla formazione e alle famiglie che finora ho potuto incontrare, senza prescindere, ed essere grata, alla psicoterapia personale precedente con cui le connessioni e sollecitazioni sono state continue.
Parlare di morte è stato inizialmente difficile, perché sempre visto come qualcosa di macabro e da evitare. Perché la nostra società è sempre in corsa, mentre il defunto è immobile senza telefonini né soldi in tasca, è solo con se stesso. È morto.
La dicotomia vita-morte che caratterizza il modo di pensare occidentale incute timore e peggiora l’ansia per un evento che innegabilmente colpirà ognuno di noi. Questo clima non aiuta le persone, soprattutto se giovani, ad accogliere la morte dell’Altro come una circostanza possibile, ma piuttosto come possibilità da allontanare. Denunciare questo tabù significa dare respiro al dolore, dargli un senso e permettere a tutti, non solo di gridare le loro paure, ma anche di urlare la loro capacità di sperimentare la Vita.
“Gli uomini periscono perché non sanno
congiungere il principio alla fine”
Alcmeone di Crotone
RINGRAZIAMENTI
Vorrei innanzitutto ringraziare i didatti che mi hanno accompagnato durante i quattro anni del training, aiutandomi a crescere sia a livello professionale che personale: il prof. Saccu per avermi ammesso alla frequenza della sua scuola; la dr.ssa M. Cotton per avermi mostrato che in terapia si può parlare di tutto; la dr.ssa A. La Mesa con la sua costanza, professionalità e capacità di ascolto, mi ha spinto a migliorare sempre; il dr. P. Bucci perché, in particolare nel suo training, ho potuto assimilare che i didatti non sono genitori!
Un grazie anche al gruppo di formazione “Da Cesira” con cui con cui ho condiviso gioie e dolori, mi sono confrontata e ho conosciuto diversi punti di vista. Un grazie infinito ad Angela (co-co), per la sua amicizia e per essermi stata vicino nel momento del bisogno.
Ringrazio i tutor del tirocinio dr.ssa A. Bisson e dr. L. Picciarella, di cui ho già ampiamente parlato.
Un grazie particolare al mio psicoterapeuta dr. L. Petrì, sebbene non ci vediamo da tempo, è sempre nel mio cuore!
Ringrazio la mia cara amica Chiara Vorrasi, storica dell’arte, per i suggerimenti e le fonti sulle immagini; chi meglio di lei che ha curato una mostra sul simbolismo?
Infine ringrazio il mio compagno Roberto, che più di tutti mi ha spinto ha frequentare questa scuola, che mi sostiene e mi sta vicino sempre, e anche in questa occasione è stato comprensivo e affabile malgrado la mia ansia da tesi; un grazie in più per la sua assistenza informatica.