Cara Me, cara Claudia, di solito le lettere vengono scritte indirizzandole a terze persone, ad un qualcuno che non siamo noi, questa volta però chi scrive sta scrivendo a sé stessa, o meglio io sto scrivendo a me stessa; alla me allieva e alla me in veste da psicoterapeuta. Il cuore di questo lavoro è la sintesi di un processo, del mio processo, di evoluzione, di crescita, di maturità, non solo a livello professionale ma soprattutto umano, intimo, personale. E’ la sintesi non tanto di come dovrebbe essere uno psicoterapeuta, ma di come io sento di poter essere psicoterapeuta.
Ricordo di essermi cosi domandata quale fosse la mia priorità in quello che sarebbe diventato il lavoro della mia vita, immaginandomi con i panni di un ipotetico paziente, riflettendo su cosa mi avrebbe fatta sentire accolta anche su una sedia scomoda piuttosto che non compresa su una bella poltrona morbida. Da paziente avrei desiderato avere seduto davanti a me non tanto un Dottore con una valigetta piena di strumenti o con un bell’abito ma un Dottore dove il protagonista non fosse la sua valigetta o il suo abito. Avrei voluto una persona che nel guardarmi mi vedesse persona. Persona è come mi sono sentita quando per la prima volta ho messo piede nell’aula principale della Scuola Romana di Psicoterapia Familiare.
Più entravo nel profondo, più sentivo parlare del lavorare con il proprio sé, con il sé del terapeuta, più mi allontanavo dal pensiero della Scuola. Come potevo io, Claudia, a smuovere qualcosa negli altri? Come potevo farlo senza avere nulla in mano? Mi balenavano in mente domande di questo tipo che mi tenevano legata, finché non ho iniziato a maturare la consapevolezza che per sciogliere quel groviglio formatosi avrei dovuto iniziare innanzitutto a vedermi, poi ad ascoltarmi e a fidarmi di me. Dopo quattro anni formativi sto avendo la conferma della prima sensazione avuta quattro anni prima: il sentirsi persona prima che qualsiasi altra cosa, prima anche del sentirsi psicoterapeuta. Non basta la preparazione sui libri, non basta mettere in pratica quanto studiato, ma per essere un bravo psicoterapeuta bisogna mettersi in gioco a 360°, non basta dire o fare, bisogna essere.
Spesso mi torna in mente una storia: C’era una volta un gruppetto di piccoli girini; li si vedeva nuotare cosi bene insieme, uniti, in armonia, che quasi potevano sembrare una bella famiglia di pesci. Il loro passatempo preferito era passeggiare tra le acque limpide, gli piaceva molto anche giocare e fare capriole. Questa era la loro routine quotidiana finché un giorno un girino non rimase indietro, nella loro passeggiata delle ore quattro pomeridiane, continuando cosi a nuotare in solitudine con la speranza di rincrociare i suoi amici. Era pieno di paura, chissà cosa avrebbe potuto incontrare e chissà cosa avrebbe potuto fare lui, un essere piccolo e indifeso. Ad un certo punto si allontanò cosi tanto che raggiunse la superficie dell’acqua. C’era molta luce lassù e si intravedevano molti colori aldilà di quella barriera. Era arrivato alla fine del mondo o era arrivato in un altro mondo? Con questo pensiero tornò in profondità, dove si ricongiunse con i suoi amici. Passarono i giorni ma il ricordo di quell’esperienza non sbiadiva. Tra sé e sé si diceva “se ce l’ho fatta una volta significa che non è una cosa impossibile da ripetere”, ne parlò anche ai suoi compagni, i quali però non dettero peso alle sue parole. Sentendosi ferito, non creduto, non preso in considerazione, il piccolo protagonista iniziò a percepire gli altri, ma soprattutto se stesso in relazione a loro, con uno sguardo diverso. Più questo suo risentimento lo faceva allontanare dal suo gruppo e più la fiducia in sé stesso cresceva, giorno dopo giorno. Ascoltando la sua parte ferita iniziò a pensare che non aveva nulla da perdere, cosi presto prese coraggio e iniziò a nuotare di nuovo verso su’. Iniziò a trascorrere ore avanti e indietro lungo quel confine, attirato dal richiamo dell’ignoto dell’aldilà ma, avendo in mente i rimproveri degli altri girini, non azzardava oltrepassare quel borderline. E se loro avessero ragione e fosse estremamente pericoloso? “Forse dovrei rinunciarci; se non dovessi tornare più la mia famiglia soffrirebbe a causa mia”, pensava. Ma per sua sfortuna, o fortuna, gli capitò di essere risucchiato per poi essere sbalzato fuori con l’arrivo di una grande onda. Tutto quello che pensava di intravedere da sotto l’acqua era reale, non era lui matto. Con la prova di questa sua esperienza tornò sul fondale, a casa sua, ma ancora una volta non trovò l’accoglienza che si aspettava. L’esperienza che aveva vissuto lo aveva, però, caricato di adrenalina, cosi appena possibile fuggiva sempre verso l’alto. All’inizio si avvicinava sempre di più a quella linea di confine, poi iniziò ad oltrepassarla, finché non iniziò a spingersi oltre con dei saltelli. I primi salti rimasero, però, per lui dei brutti ricordi. Non faceva in tempo ad ammirare quella vista nuova che si sentiva subito male, c’era un qualcosa che gli toglieva il respiro. Impaurito risaltava immediatamente nella sua zona comfort. Questo tornare indietro era percepito in un primo momento come una salvezza, come una stabilità, come “casa”, successivamente come una sconfitta, come un fallimento, come un dover dare ragione agli altri e non a se stesso. Gli ci voleva un po’ di tempo ma alla fine si riprendeva sempre. “Non era quindi pericoloso”, iniziò a pensare dopo un po’; bastava stare attenti e pronti a tornare a prendersi una boccata di respiro sotto l’acqua quando necessario. Intanto sopra poteva ammirare cose nuove, belle da vedere e piacevoli da ascoltare: tanta erba di un verde scintillante, tanti fiori colorati e profumati, tanti canti di uccellini. Più lui cresceva e più cresceva la sua smania di prendersi tutto quello che la natura terrestre poteva regalargli. Più saltellava qua e là e più si sentiva sicuro di sé, più forte, più grande forse, ma di sicuro cambiato. Non stava aumentando solamente la sua autostima, non era diversa solamente la sua anima, ma allenandosi anche il suo corpo si stava trasformando. Vedendo in lui qualcosa di diverso, gli altri girini preoccupati per la sorte di questo ingenuo fratellino minore iniziarono a seguirlo da lontano nelle sue avventure. E’ cosi che dovettero dar ragione alle farneticazioni di questo. Tutto quello che avevano sentito dalla sua bocca si stava trasformando in concreto: esisteva un qualcosa di indefinito che non fosse acqua, ma soprattutto, non credendo ai propri occhi, era un qualcosa dove ci si poteva anche andare. Decisero cosi di riunirsi per parlare con quel girino non più piccolo, ma diventato grande e coraggioso, diventato “rana”. Questo raccontò loro tutto quello che aveva incontrato in quel posto nuovo, tutto quello per cui era valsa la pena sacrificarsi, lottando contro il destino, contro gli altri, contro chi voleva bene, contro il suo corpo, contro i suoi pensieri, contro le sue emozioni, contro se stesso. Nel parlare di quanto straordinario fosse ciò che gli era capitato, all’inizio per caso, si rese conto che quell’immenso regalo se lo era fatto soprattutto da solo, ma anche grazie ai suoi compagni, senza i quali molto probabilmente non avrebbe avuto quella spinta che gli è servita. Concluse il suo discorso ringraziando se stesso e ringraziando quei momenti di sconforto attraversati, senza i quali il traguardo raggiungo oggi non avrebbe lo stesso valore, il suo coraggio non sarebbe stato cosi coraggioso e la sua determinazione non sarebbe stata cosi testarda. I piccoli girini rimasti impressionati dall’entusiasmo trasmessogli accompagnarono il loro amico nella sua prossima avventura. Non è solo la storia di un girino; è la storia di un’esperienza, è la storia di un cambiamento, è la storia di una trasformazione ad opera di un singolo che non è solo, di un qualcuno che è cresciuto, che si è evoluto anche grazie al suo contesto interazionale.
A quel tempo non capivo il perché del non studiare semplicemente la teoria sul manuale o su dei pazienti, non mi capacitavo del perché ce la stessero facendo studiare attraverso noi allieve, punzecchiando e molte volte trafiggendo i nostri sentimenti, le nostre emozioni, i nostri ricordi, le nostre speranze. Ad oggi, guardandomi anche attraverso gli occhi dei miei pazienti, sto vedendo che non basta impararsi a memoria, come una poesia, gli enunciati teorici o le linee guida tecniche, non basta neanche osservarli in scena stando dall’altra parte del palco; ma per comprenderli bisogna tirarci su le maniche e metterci le mani dentro, farci sporcare. Perché il più delle volte non basta rispettare chi abbiamo di fronte, non basta entrarci in empatia; il più delle volte sapere di cosa l’altro sta parlando, collegandolo a noi, simpatizzandoci, ci può aiutare a starci insieme. Perché ci sono professioni che vanno oltre i libri e oltre la testa.
Famiglia Orchidea: sono arrivati alla prima seduta portando nella loro valigia soltanto il mal di stomaco di Elisa con tutte le paure annesse. Come nella maggior parte dei casi, anche tale famiglia non richiede una consultazione per sé ma per un suo membro problematico, il cosiddetto paziente designato. Il paziente o la famiglia arrivano con un colore cercando di farci entrare nel loro colore chiedendoci di lavorare sui problemi del portatore dei sintomi. Ampliando lo sguardo, però, si è potuto ridefinire la loro storia spostando l’attenzione da questo a tutta la famiglia. La lettera è stata il filo che ha legato queste dieci sedute svolte in sede. C’è un frammento molto rappresentativo, secondo me, nella lettera consegnatami in quell’occasione da una delle figlia, Giulia, che mi scrive: “Gentile Dottoressa, vorrei ringraziarla per la lettera e per avermi reso parte di questo percorso che ha intrapreso con i miei genitori e con mia sorella…Ho sempre creduto che io entrassi molto poco nella situazione di mia sorella, ma ora ho realizzato che posso essere molto importante perché anche io faccio parte della famiglia”.
Ho letto da qualche parte che qualunque situazione di vita e di esperienza può trasformarsi in una forma di psicoterapia per se stessi, qualunque evento, anche l’essere la terapeuta di qualcun altro. Sento quindi di dover ringraziare anche io la cara Elisa (paziente designata). Grazie a lei, ai suoi sintomi e alla sua famiglia, al loro processo, ho avuto l’opportunità di scoprirmi anche io. La terapia, pertanto, è diventata una co-crescita.
Credo che essere psicoterapeuti significhi tantissime cose, ma diverse per ognuno, per ogni terapeuta, in quanto sintesi tra quello che è il sé professionale e quello che è il sé umano. Soffermandomi sulla mia esperienza da allieva all’interno della scuola e soffermandomi sulla mia esperienza come psicoterapeuta con la famiglia che ho seguito credo che l’essere psicoterapeuti familiari (sistemici – relazionali – simbolici – esperienziali) significhi non solo essere preparati da un punto di vista accademico o il cambiare sguardo, come potevo pensare qualche tempo fa, ma credo che significhi soprattutto essere consapevoli e pronti a mettersi in gioco ogni volta si entri dentro un setting psicoterapeutico, mettersi in discussione, aprirsi all’altro ma aprirsi anche a se stessi, coltivando, come dice Whitaker, costantemente il proprio sé, la propria persona; credo che significhi crescere insieme alla famiglia o ai pazienti che avremo di fronte, credo che significhi rifiorire insieme a loro. Sento per questo che l’essere arrivata a scrivere la mia ultima pagina circa un percorso portato a termine non significhi l’aver scoperto quella ricetta che cercavo inizialmente, ma significa l’essere pronta a ripartire anche da zero, mettendo le mani in pasta, sperimentandomi in ricette alternative con ingredienti conosciuti già o appena scoperti, significa l’essere pronta a fare anche dei salti indietro prima di voltare pagina, significa l’avere il coraggio di andare avanti chiudendo il ricettario.
Con l’augurio che possa avere il coraggio di rifiorire ogni volta ne dovessi sentire la necessità e con l’augurio che possa rifiorire ogni volta insieme ad ogni futuro paziente, ti saluto cara Claudia.