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DALL'ARCOBALENO AL CUBO DI RUBIK VIAGGIO ALLA RICERCA DEI COLORI

IMG 9569Il punto di partenza

L’iscrizione alla Scuola Romana di Psicoterapia Familiare è stata per me il punto di approdo di un percorso che durava da tanti anni e che aveva visto il periodo dell’università trascorrere senza molto entusiasmo, con molta curiosità, ma con poco trasporto per la professione che avevo scelto. Ciò dipendeva dal fatto che la facoltà alla quale mi ero iscritta aveva un’impronta quasi esclusivamente psicodinamica ed io facevo molta fatica ad accostarmi e a comprendere (e questo parlava di me) un modello poco concreto, che aveva la pretesa di osservare e conoscere il mondo interno delle persone. Poi, durante la preparazione di un esame, ho incontrato l’approccio sistemico – relazionale ed è stato per me come lo schiudersi di un universo: finalmente veniva preso in considerazione il mondo reale, con tutti i personaggi che lo popolano e con le modalità che gli individui hanno di rapportarsi ad essi. È stato come una grossa boccata d’aria dopo una lunghissima apnea, rappresentava la sensazione di recuperare la libertà, di poter pensare in un modo del tutto nuovo alle persone e alle loro difficoltà, poiché la patologia non era più insita nella natura dell’individuo, ma costituiva una modalità di espressione, per quanto inconsapevole e dolorosa. Ciò mi permise di trovare il mio senso a quella che sarebbe stata la mia professione, così scelsi la Scuola Romana.

Da allora sono cambiate tante cose, io sono cambiata tanto, soprattutto ho compreso che quella scelta è stata davvero giusta e che il vestito sistemico è quello che più si adatta a me, al mio stile, alla mia concezione di psicoterapia e alla psicoterapeuta che voglio essere. Anche perché è quello che maggiormente si presta ad essere levato quando inizia a diventare troppo stretto, nel senso che non ragiona mai con una logica di esclusione, ma al contrario integra anche gli altri modelli, primo fra tutti quello psicodinamico. Ora, infatti, ho trovato il senso di quelle teorie, ho compreso quanto sia importante uno sguardo che dall’insieme può spostarsi al singolo e viceversa e quanto individuo e sistema siano interdipendenti. Ma è solo nella possibilità di poter scorgere entrambe le facce che si nasconde l’opportunità di accostarsi a conoscere l’intera medaglia!

Ho inoltre realizzato che la Scuola Romana non era per nulla un punto d’arrivo, ma, al contrario, il punto di partenza per un viaggio che probabilmente non avrà mai fine: la ricerca e la scoperta di se stessi!

Conclusioni

 La scoperta dei colori

I quattro anni di training alla Scuola Romana, l’incontro con i didatti, l’incontro con il gruppo, l’incontro con la famiglia Fresia e con tutte le altre famiglie che ho conosciuto attraverso lo specchio, non ha rappresentato solo un’esperienza formativa, nella quale ho imparato come agisce uno psicoterapeuta sistemico, ma una vera e propria esperienza di vita, attraverso la quale ho compreso di essere una psicoterapeuta, forse ancora giovane e inesperta, ma sicuramente una psicoterapeuta.

Cosa significa questo? Ho impiegato quattro lunghi, intensi, forse troppo brevi anni a comprenderlo e non credo che arriverò mai a capirlo del tutto. Whitaker ripete più volte la frase “essere è divenire”[1], vale a dire che si può essere veramente qualcuno solo all’interno di una definizione non statica, rigida e immutabile, si può essere solo all’interno di una non-definizione.

La scuola ha toccato, in questo percorso, tante corde, alcune le ho raccontate descrivendo il processo mentre altre ancora hanno risuonato nell’ambiente accogliente e sicuro della mia psicoterapia individuale, necessità questa suscitata dai movimenti interni che ho iniziato a sentire sul finire del secondo anno (e legati anche alle vicende personali che nel frattempo si andavano intrecciando), movimenti rispetto ai quali non riuscivo a trovare una spiegazione.

Già, perché sono arrivata quattro anni fa che l’aspetto razionale e logico era la mia grande certezza, ciò su cui ho fondato la mia identità, i miei valori. Definire sempre tutto, e prima di tutto me stessa, era la chiave per muovermi nel mondo, sempre sicura, sempre certa della prossima meta da raggiungere. Come Gia Bey col suo marsupio[2], avevo bisogno di prevedere, controllare e anticipare ogni evento, ogni incontro, per placare le ansie e le paure che l’altro inevitabilmente scatenava.

Poi i didatti hanno cominciato a smontare pezzo per pezzo le mie verità, prima da un punto di vista cognitivo, con un modello complesso che integra e accoglie le differenze, che dà significato e dignità anche a sentimenti umani che sono comunemente considerati deprecabili. La logica del giusto-sbagliato non funzionava più: finché cercavo un vincitore finivo sempre col perdere.

Fino al momento in cui, a un tratto, attraverso il lavoro clinico (sia da terapista che da paziente), ho realizzato che era la stessa operazione che facevo con me stessa: alcuni colori andavano bene, specie quelli che maggiormente rispondevano alle aspettative altrui, quelli spenti come il grigio, il beige o il marrone, a volte azzardavo qualche contrasto come il bianco o il nero e se venivano fuori altri colori li smorzavo con tonalità pastello, chiare, delicate, poco decise. L’importante era che quei colori fossero abbastanza neutri da poter essere approvati! (Di chi era lo sguardo più severo?)

Ma poiché i colori li abbiamo dentro, più strade si percorrono maggiori diventano le possibilità di incontrare questi colori e iniziare a sentire che quelli che abbiamo portato addosso per tutta la vita non ci descrivono più, anzi iniziano a starci stretti. Così ho iniziato a conoscere il rosso dell’aggressività, il giallo del divertimento, il blu del dolore, l’azzurro della leggerezza e mille altri ancora, ma sopra ogni altra cosa ho iniziato a cercare i miei colori.

Ho imparato che il segreto sta nel non sceglierne nessuno, ma poter passare dall’uno all’altro a seconda della circostanza e dello stato d’animo, senza temerli, senza rifiutare quelli che ci hanno fatto diventare ciò che siamo, ma concedendoci la possibilità di diventare anche qualcun altro nel prossimo incontro con gli altri e, di conseguenza, con noi stessi. Questo mi ha permesso di integrare anche gli aspetti che mi avevano fino ad allora fatto sentire il peso della corazza, consentendomi di rapportarmi agli altri senza cercare in loro i significati di cui avevo bisogno, ma di sentire la forza e la fiducia di poterli scovare dentro me stessa.

Incontrare i miei colori, anche come terapeuta, mi ha concesso di potermi accostare all’altro, anche solo in una posizione di ascolto, di poter entrare in relazione con lui senza spaventarmi o giudicare i suoi colori, in maniera tale che anch’egli potesse non spaventarsi e non giudicarsi. Dal momento che è la relazione ad essere terapeutica, tanto più io incontro i miei colori, tanto più l’altro può incontrare i suoi.

La famiglia Fresia ha incontrato i suoi colori: sono arrivati come un arcobaleno, colmo di armonia, dove però i sette colori si fondono e non si capiva bene dove inizia l’uno e finisce l’altro. Nel cammino tracciato insieme ciascuno ha trovato il proprio cubo di Rubik (me compresa), un vero e proprio rompicapo, duro, faticoso ma anche entusiasmante, che consiste nell’impegnarsi per rimettere apposto i colori.

Ciò che conta, però, non è trovare la soluzione, non è definire i colori, ma ciò che si scopre mentre ci si prova, quali colori si incontrano: in altre parole ciò che conta non è la meta ma il cammino che si percorre poiché, per dirla alla Whitaker, “essere è divenire”.

 

 

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