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La scelta dell’itinerario

P1000767 BWPiena di entusiasmo e di voglia di sapere (sapere come, non sapere cosa), ho diretto le mie ricerche sulle scuole di terapia familiare. Ho fatto diversi colloqui in alcune di esse, in ultimo nella Scuola Romana di Terapia Familiare. Dulcis in fundo, è il caso di dirlo. Già durante le ricerche via web avevo indirizzato la mia preferenza verso di essa, attratta dalla maggiore quantità di ore di training  rispetto a quelle di lezioni teoriche. Avevo bisogno di sperimentarmi, di vivere ciò che studiavo direttamente sulla pelle e nello stomaco, e i training mi sembravano i più adatti allo scopo. La scelta definitiva è avvenuta solo il giorno del colloquio di selezione.

Innanzitutto sono stata conquistata dalla sede. Non appena sono entrata ho avuto la sensazione di fare ingresso nella casa di qualcuno, non in un’“accademia”, e la cosa mi sembrava fare il paio con il fatto che lì si trattasse di famiglie. Quell’ambiente caldo e accogliente mi sembrava pieno di memoria e privo delle sovrastrutture legate a quelli che io ho sempre considerato criteri di “apparenza” tipici delle sedi di formazione: ordine, asetticità, freddezza, luci al neon, cattedre, sedie disposte in file lineari. Avevo la sensazione che lì regnasse una sorta di caos creativo, (ora lo definirei un ordine diverso creativo) con i mobili storti, le luci calde, senza cattedre, con le sedie disposte in circolo, era come se quel luogo rompesse con tutto quello a cui ero abituata e che mi aspettavo di trovare, traghettandomi verso una dimensione spaziale e psicologica nella quale io potessi rispecchiarmi e stare comoda. Le segretarie mi hanno fatto accomodare in una sala d’attesa  e dopo pochi minuti il Prof. Saccu in persona è venuto a chiamarmi.

Il fatto stesso che fosse il Direttore della scuola a fare i colloqui mi ha colpita positivamente, mi è parsa una dimostrazione di attenzione, interesse e professionalità che nelle altre scuole non era avvenuta. Mentre entravo nella stanza il Prof. mi ha chiesto “Ha paura dei cani?” e rispondendo di no, ricordo di aver pensato “Ecco, vuole sondare le mie fobie”, quando poi mi ha indicato Lola che dormiva sotto la scrivania ho riso, bonariamente, di me stessa dicendomi “Quello di cui evidentemente soffri si chiama psicologite”. Il Prof. mi ha fatto sedere accanto a lui, assumendo una posizione che mi ha fatto sentire “come se stessimo insieme a fare questa cosa”, ho sentito una vicinanza, forse il termine giusto è una partecipazione. Ho notato che la scrivania era attaccata al muro e ho pensato che non fosse proprio contemplata in quel luogo la possibilità di mettere un elemento esterno di separazione tra le persone, che l’incontro  con l’altro non poteva avvenire da dietro una scrivania. Forse gli ho dato tanta importanza perché io durante i colloqui che avevo fatto fino a quel momento nella mia esperienza lavorativa non avevo mai usato “un lato e l’altro” della scrivania, percependola come una posizione di distanza dall’altro da cui mi sentivo limitata anche nei movimenti. L’inizio del colloquio mi ha subito spiazzata, pensavo di dover sostenere un colloquio di selezione basato su cv, esperienze, competenze, conoscenze a cui avrebbe fatto seguito una presentazione della scuola. Nelle altre scuole che avevo contattato il colloquio di selezione si era declinato essenzialmente in una presentazione dell’attività didattica, in un accenno ai docenti, in una visita della sede e nel rilascio di depliant descrittivi. Invece il Prof. Saccu mi ha chiesto di me, da dove venissi, della mia famiglia e lo ha fatto senza usare domande dirette, ma affermando delle cose in modo interrogativo (so che sembra un ossimoro ma è stata questa la mia percezione). Mi è sembrato si trattasse più di una seduta di psicoterapia che di un colloquio di selezione. Come in una danza il Prof. Saccu si muoveva intorno a me, girando, ipnotico come un derviscio, per poi toccare punti specifici con una chiarezza che io neanche in 30 anni di domande rivolte a me stessa e interrogazioni avevo mai formulato in modo così limpido, pertinente e puntuale. A lui sono bastati 5 minuti. Abbiamo parlato dei viaggi, mia grande passione, delle mie esperienze di crescita, della mia famiglia per come io la vedevo. Mi sono ritrovata completamente scoperta, svelata, rivelata per la prima volta a me stessa. Avevo deciso, quella era la mia scuola, non mi restava che sperare di essere per essa la sua allieva.

               

               L’incontro col gruppo e con i didatti: “Per asciugarsi ci si deve prima bagnare”

 

Il primo giorno di training abbiamo incontrato il Prof. Bucci che ha chiesto ad ognuno di noi di indicare un proprio pregio e un proprio difetto. Ho pensato che fosse un modo per metterci tutti subito di fronte gli uni agli altri, una presentazione per “rompere il ghiaccio” ed esporci nel gruppo, facendoci conoscere. Poi alla fine del giro ha ridefinito con ciascuno la qualifica degli aggettivi scelti, chiedendoci se quello che avevamo indicato come pregio o difetto fosse da considerarsi davvero tale, secondo quest’unica prospettiva, o non fosse piuttosto possibile anche il contrario. All’improvviso non sapevo più quale fosse il “dritto” e quale il “rovescio”, era come se Dio stesse scuotendo lo spazio-tempo e mi lasciasse priva di coordinate, perfino delle costanti universali. Il docente iniziava ad introdurre il concetto di realtà come qualcosa che costruiamo a partire da noi, che esiste come realtà per noi e per conoscerla possiamo solo interrogare i nostri sensi. Ricordo che ci ha fatto mettere la mano contro il muro per poi chiederci un commento. Tutti abbiamo detto “è freddo”, “è duro”, “è liscio”, indicando qualità che eravamo convinti definissero il muro stesso. Poi la domanda “E’ il muro ad essere freddo, liscio, duro, o è la vostra mano che ve lo fa sentire così? E’ l’incontro della vostra mano con questo muro che vi fa provare queste sensazioni?”.

Lo stesso muro del determinismo con cui definivo la realtà esterna e me stessi, ha cominciato nel corso del primo anno ad essere scalfito e, almeno per me, ad assumere una connotazione diversa: dal considerarlo qualcosa che mi rendeva sicura, che definiva, secondo un’illusione di oggettività, la realtà in cui mi muovevo e che io stessa rappresentavo, ho iniziato a viverlo come qualcosa che mi imprigionava in quelle stesse definizioni. Nel corso di tutto il primo anno ho avuto la sensazione di camminare su una sorta di scala di Escher, non capivo in quale direzione stessi andando, se stessi salendo o scendendo, se stessi a testa in su o in giù. Non c’era più un principio né una fine, non c’erano più le affermazioni e le negazioni, era tutto il contrario di tutto, per cui un conflitto, ad esempio, veniva letto come qualcosa che unisce. Avevo la sensazione di aver vissuto in un mondo di dicotomie, di opposti, di categorizzazioni e ora mi si stava aprendo un orizzonte pieno di alternative, possibilità, ridefinizioni che, soprattutto all’inizio, erano accompagnate da dubbi, incertezze, confusione. Mi sono sentita un po’ come Alice quando il Brucaliffo le ha chiesto “COSA esser tu?”

Nel corso dei successivi anni, le restituzioni dei didatti nei training e durante il  genogramma (mio e anche dei miei compagni) hanno continuato a lavorare dentro di me (e ancora non hanno smesso), erano come post it a cui sempre facevo riferimento, sia quando ero nel gruppo di training sia quando tornavo a casa nella mia famiglia. Solo molto tempo dopo ho capito che quella non era la mia famiglia, ma la mia famiglia per me. Dopo aver capito che nel racconto della mia famiglia, non potevo che partire da me, e che partire da me voleva dire che ero inclusa nelle dinamiche che raccontavo, ho potuto utilizzare gli strumenti e le restituzioni che mi erano state date, iniziare un movimento di eclissi (come lo ha definito il Prof. Saccu) e guardare me stessa e le altre persone da una prospettiva diversa, liberando tutti dalla morsa delle definizioni “vere” e immodificabili, sperimentando la visione di quelle sfumature di colori verso cui prima ero cieca, cominciando a seguire il principio dell’essere con me non dell’essere contro di loro, cominciando a cambiare funzione.

Alla scoperta della soggettività: “Agosto non è estate”

Nel corso dei suoi training abbiamo iniziato a confrontarci con noi stessi, sentivo che le sue lezioni non fossero rivolte a noi solo in quanto terapeuti, ma anche in quanto persone, individui, esseri umani che si stavano formando come terapeuti. Passavo costantemente attraverso l’esperienza diretta di me stessa con me, con lei e con il gruppo, vivevo le trappole in cui cadevo e che io stessa costruivo, perché lei me le metteva continuamente davanti facendomi riflettere sulle esatte parole che pronunciavo, che sceglievo, consciamente o meno, per esprimermi, così che non potessi “scappare”, in modo tale che io potessi vederle ed affrontarle. Ho sempre avuto la sensazione che si spingesse là dove volevamo andare, riconoscendo in noi, dietro il timore e le difficoltà, il desiderio di raggiungere quei luoghi. E’ stato un percorso impegnativo, a volte doloroso, e nonostante questo, per tutto il tempo ho sentito il beneficio e la crescita che portava. Ho imparato a stare nell’ambivalenza, ad amare l’ambivalenza, a sperimentare la libertà di essere e di esprimersi insita nell’ambivalenza, che ti fa considerare le luci e le ombre.

Questa capacità di passare per le proprie e le altrui ombre, di riconoscerle, e dargli voce, è stato un lavoro centrale nell’esperienza formativa con la Prof.ssa Cotton.

La Prof.ssa ci spronava continuamente a contattarci e a riconoscere l’immenso ventaglio delle possibili emozioni umane, che sono diventate con il tempo, per noi, dicibili. Ho avuto esperienze di cecità ed esperienze di visione, anche di visione di quella cecità. Eravamo continuamente stimolati all’esercizio della soggettività. Siamo passati dal “In che senso?” (un po’ come il “Chi, io?” di Matteo) a cercare il nostro di senso, dal determinismo di una realtà vera e unica, alla realtà per me, soggettiva. Non che questo processo sia stato facile. A dire il vero, per quanto mi riguarda, non è ancora terminato. Ma credo che il più grande regalo che ho ricevuto dalla Prof.ssa Cotton, sia stato quello di aprire. Aprire a prospettive diverse, aprire alle possibilità, aprire alla ricerca e alla cura continua del proprio senso, come qualcosa che è in continua crescita, non termina mai, non si ferma, non si definisce una volta e per sempre, avviene nel contatto con sé e nell’incontro con l’altro.

Michelangelo Buonarroti diceva: “Io intendo per scultura quella che si fa per forza di levare” e ancora “Tu vedi un blocco, pensa all’immagine. L’immagine è dentro, basta soltanto spogliarla”.

Credo che prima Bucci con lo scalpello, poi la Cotton con le raspe e le lime, abbiano fatto proprio questo. Non hanno mai messo contenuti, ci hanno spogliati del “superfluo”, di tutto ciò che era grezzo e che ci copriva, o dentro cui ci nascondevamo, per svelare la forma che ognuno di noi aveva. La nostra forma, il nostro senso.

A mio parere durante tutto il terzo anno abbiamo lavorato sul tema dell’ambivalenza, sul poter stare nell’ambivalenza. E’ stato un anno in cui i movimenti di differenziazione iniziati nel secondo, sono proseguiti, ho cominciato a vivere il gruppo non più come un coro all’unisono, monodico, tipico della tradizione ecclesiastica e dei canti gregoriani, in cui c’è un’unica legge divina, superiore, da seguire, ma ho cominciato a distinguere bassi, baritoni, tenori, soprani, mezzosoprani e contralti, ognuno in relazione con gli altri, ma con la propria voce.

Esplorare a partire dai confini

L’ultimo anno di training per me ha rappresentato il proseguimento nel percorso di integrazione di quanto affrontato negli anni precedenti.

Riguardando questi quattro anni di formazione mi accorgo che sono stati caratterizzati da una continua sperimentazione. Una sperimentazione di me stessa con me stessa e una sperimentazione di me stessa con gli altri. Continuamente riportavo quanto vissuto e appreso durante i training, con i didatti e con i compagni del gruppo, a casa, con il mio compagno, con la mia famiglia. Dallo scienziato al microscopio che osservava gli altri da fuori, ho cominciato a sentirmi dentro, a muovermi da dentro, da dentro di me e da dentro al sistema. La consapevolezza che raggiungevo nell’esperienza con il gruppo, la trasferivo direttamente all’esperienza nella mia famiglia.

Era una sperimentazione che potevo fare dal momento in cui ho cominciato a percepire chiaramente dei confini interni. La Prof. Raschellà, che ci ha accompagnato per tutti e quattro gli anni di formazione, ha rappresentato per me proprio questo: il lavoro sui confini, sia con le famiglie in terapia, sia innanzitutto su di sé e con la propria famiglia. Lei stessa è stata per me un “confine”: la ricerca, la costruzione dei confini, è diventata, in qualche modo, confine stesso, nel senso di contenitore contenitivo. Era un perno attorno a cui ruotare ed esplorare e a cui costantemente fare ritorno. Era la struttura, una sorta di base sicura a cui tornare che piano piano ho interiorizzato. Avere una pelle, avere un confine, partire da me, percependo un me, mi ha consentito nel tempo di esplorare, di “allontanarmi” dalle mie certezze con la sicurezza di non scomparire, di potermi perdere e di potermi ritrovare, è stato questo che mi ha consentito di lavorare per accedere alla soggettività, nonostante ci siano stati tentativi di oggettivarla, come modi di legittimarla. Percepirsi come individuo separato, differenziato e riconoscere la propria soggettività sono stati movimenti sincroni, che si sono costruiti a vicenda e che si stanno tuttora costruendo.

La costituzione di confini, l’esercizio della soggettività, l’integrazione di luci ed ombre, il poter stare nell’ambivalenza, il concetto di realtà per me, i quattro livelli della conoscenza, il potere delle immagini, hanno rappresentato linee guida che ho seguito alla scoperta di me e di me con gli altri.

Il gruppo di training è stato un terreno di sperimentazione, di prove continue, di feedback sui quali riflettere, di proiezioni che ho potuto riprendermi, riconoscendole come tali. Li ho odiati, li ho amati, li ho temuti, li ho stimati, li ho appoggiati e mi sono appoggiata, ho avuto voglia di scappare e di restare, e in ognuno di questi movimenti, in ognuna di queste emozioni ho potuto capire quanto loro fossero loro per me, e quindi quanto ci fosse di me in ciò che attribuivo loro, quanto in ogni definizione che si dà di se stessi ci siano anche le aspettative degli altri e sugli altri. Ci sono cose che si possono scoprire solo mentre le si scopre, che si possono scoprire solo nella relazione. Come dice Guglielmo ad Adso “Come posso scoprire il legame universale che rende ordinate le cose se non posso muovere un dito senza creare un’infinità di nuovi enti, poiché con tale movimento mutano tutte le relazioni di posizione tra il mio dito e tutti gli altri oggetti? Le relazioni sono i modi in cui la mia mente percepisce il rapporto tra enti singolari […]”.[1] Forse è questo l’unico legame universale che “ordina” le cose.

Tornavo ogni volta nella mia famiglia con un’esperienza di me stessa nuova, che volevo, per così dire, mettere alla prova. Ci sono stati movimenti astronomici, eclissi, rotazioni, rivoluzioni, collisioni, ogni volta mi ricordavo, come una sorta di memento, che la mia lettura di ciò che accadeva fosse la mia, che non ci sono emozioni buone o cattive, che ciò che proviamo è ciò che proviamo, non dobbiamo condannarlo o cambiarlo ma capire a che cosa ci è utile, cosa farci, come usarlo, mi ripetevo che “proiettiamo perché non siamo Dio, ma vorremmo esserlo” come ci ha detto la Prof.ssa Cotton, e che la realtà è per come la leggiamo, che accanto alla visione di qualcosa c’è la cecità rispetto ad altro e dobbiamo chiederci, come ci disse il Prof. Bucci, se dietro all’emozione che riconosciamo e attribuiamo all’altro ce ne sia una diversa possibile, se ci sia un altro possibile rispetto a quello che è stato finora l’altro per me.

Con il tempo ciò che mi dovevo ripetere è in parte diventato automatico. Questa consapevolezza non cambiava loro, cambiava me e quindi le “relazioni di posizione” con loro.

Grazie all’esperienza nel gruppo ho potuto raggiungere prospettive nuove e vivendole lì, riportarle nella mia famiglia. Ho potuto sperimentare che dire “Io” non significa dire “non Tu”, che stare “con me” non vuol dire stare “contro di te”, che i legami non sono legacci, e che la gabbia che sentivo fuori, in realtà era dentro ed era costituita proprio da queste sbarre. Per me uscirne fuori, ha voluto dire poter stare dentro.

 

 

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