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Contributo alle giornate di studio SRPF 18-19-20 ottobre 2019

paolo bucciVorrei intanto sottolineare un apprezzamento alle sollecitazioni rappresentate dalle righe che Il prof. Saccu ci ha inviato come stimolo al nostro incontro.
In particolare vorrei evidenziare il riferimento all’atteggiamento che viene esortato che consiste nel valutare e rispettare le idee e le teorie che scegliamo di usare per il loro valore reale e pratico, indipendentemente dalla loro provenienza. Le certezze ideologiche ed il settarismo sono estranei a questo atteggiamento, tuttavia non si tratta di una accomodamento eclettico alle varie teorie bensì bisogna contrastare questo rischio, ciò richiede molta disciplina ed onestà intellettuale. Questo è quanto si richiede ad un funzionamento di una mente indipendente.

Nella illusione o nella consapevolezza di essere una mente indipendente ho provato ad utilizzare le domande che seguivano ed ho avuto una certa difficoltà. Lungi da voler rispondere alle domande indicate dal Prof. Saccu come per un esame, notavo che queste domande scaturivano da un punto di vista sicuramente apprezzabile ma poco chiaro.

Ad es.: sono certamente convinto che l’attenzione all’infanzia sia un nodo centrale per la comprensione delle vicende umane tuttavia non è tanto in questione definire l’infanzia quanto evidenziare i presupposti attraverso i quali ci avviciniamo all’infanzia. Così come il parlare di psicanalisi mi sembra un vero passo in avanti per poter raffinare i nostri strumenti di conoscenza. Tuttavia esiste in me il timore che si possano usare altre discipline per appoggiare o convalidare il nostro pensare sistemico, piuttosto che vedere come, in generale, usare i diversi contributi delle diverse discipline per aumentare la nostra capacità di comprensione, di pensiero e di azione senza perdere l’identità sistemica.

Qui faccio un riferimento allo sviluppo del mio/nostro pensiero in quanto dato originario qualcosa che non può essere ricondotta o ridotta ad altro, cioè non è deducibile/derivabile da altro ma che si serve e si nutre dai diversi contributi utili ad approfondire la nostra conoscenza. Concetto ripreso dal contributo di Waldenfels

A partire dagli anni ‘80 la mia esperienza professionale è stata caratterizzata dal lavoro clinico con pazienti psicotici adulti nell'ambito dei servizi dipartimentali di salute mentale. È stata questa mia certamente una esperienza che considero fortunata in quanto accompagnata dalla possibilità di poter usufruire di supervisione, equipe multiprofessionali e, non ultima di importanza, dalla possibilità di conoscere operativamente i diversi contesti in cui veniva accolta la sofferenza psichica.
In quest'epoca ho conosciuto il costruttivismo ed è stata una esperienza entusiasmante da un lato e dirompente dall'altro. Entusiasmante in quanto mi consentiva di potere considerare la relazione con il paziente in modo meno autoritario ed unidirezionale. Con la prospettiva costruttivista era possibile evidenziare anche il contributo, la responsabilità, di chi era portatore della sofferenza (diretto o indiretto) nel creare e mantenere le condizioni della sofferenza stessa.
In altre parole assumeva centralità l’incontro delle opinioni del terapeuta con i modi e le forme in cui si esprime la sofferenza sia del singolo individuo che del sistema familare. Fu in questo periodo che incontrai sotto svariate forme e contesti la riflessione epistemologica alla quale è stato dato il nome di costruttivismo nel cui ambito si collocavano la Seconda cibernetica e la Teoria della complessità
Il mio entusiasmo derivava dal fatto che queste nuove epistemologie aprivano alla possibilità di un lavoro clinico col disagio mentale e diventava possibile aprire una relazione con quanto fino ad allora era prevalentemete etichettato ed escluso dalla realtà sociale.
L’aspetto dirompente dell’incontro con queste epistemologie era nel fatto che esse suscitavano interrogativi riguardanti non soltanto gli aspetti teorici dell'approccio sistemico, ma la nozione stessa di terapia e l'identità del terapista. L'impostazione costruttivista infatti, prima ancora di trasformare il modo in cui i terapisti spiegavano il sintomo o la patologia, ha messo in crisi i presupposti stessi su cui si fondava la psicoterapia come fenomeno a un tempo scientifico e sociale.
L'idea che ha scosso il "mondo dei terapisti sistemici" è che l'osservatore, lungi dall’essere esterno al processo della conoscenza, partecipa attivamente alla costruzione del sistema osservato e in ogni momento si rapporta col sistema attraverso una comprensione che modifica la sua relazione col sistema stesso (Maturana-Varela, 1979).

Precedentemente alla seconda cibernetica, dagli anni Sessanta in poi, il riferimento alla nozione di sistema aveva introdotto delle modifiche nei modi di spiegare i comportamenti sintomatici, nei metodi osservativi e nelle pratiche terapeutiche, partendo comunque dal presupposto che una osservazione oggettiva fosse possibile, che a partire da tale osservazione fosse possibile ricostruire i meccanismi o i processi psicopatologici e che a partire da ciò fosse poi possibile intervenire per modificarli. L'affermazione della natura costruttiva dei processi di osservazione e quindi di conoscenza introduceva un cambiamento in questi stessi presupposti. Essa infatti implicava la necessità di riconoscere che le spiegazioni dei terapisti non sono oggettive, e dunque che le regolarità di funzionamento di una persona o di una famiglia non sono caratteristiche di quella persona o di quella famiglia, ma sono descrizioni del terapista.

Con il costruttivismo, non cadeva soltanto la rassicurante idea della conoscenza oggettiva, ma anche l'altrettanto rassicurante distinzione tra comprensione e intervento. Dal punto di vista costruttivista, pensare che l'analisi della domanda, l'osservazione dei modelli interattivi, la raccolta di informazioni relative alla storia della famiglia e l'eventuale diagnosi siano collocabili in un tempo 1 e l'intervento in un tempo 2, risulta illusorio: conoscere è intervenire e il conoscere è più legato alle mappe del terapista che alle "reali" caratteristiche della famiglia.

Dirompente, dunque.

Da più parti si scrive che sulla spinta delle considerazioni sostenute dal costruttivismo il concetto di autoriflessività ha assunto per i terapisti sistemici il valore di principio metodologico.
Di certo posso affermare che a partire dall’esperienza formativa nel mio contesto di lavoro istituzionale e dal training di formazione presso l’ITF sono giunto ad assumere questo principio come metodo.

Insieme alla necessità di acquisire una competenza e una responsabilità tecnica nasceva in me la necessità di assumere una responsabilità epistemologica che, coerentemente a quanto espresso nella seconda cibernetica, consiste nella necessità che il terapista di rifletta sul proprio modo di pensare, sui propri sistemi di riferimento, in modo da valutare le conseguenze che sul piano sociale ed interattivo hanno le operazioni conoscitive che esso effettua nei confronti del paziente e del suo sistema significativo. Prendeva forma in questo modo quanto nel corso della mia esperienza formativa era continuamente sottolineato dai didatti: il loro richiamare l’attenzione su cosa sentivo o pensavo circa le situazioni cliniche in cui ero impegnato e il loro invitarmi a riflettere su come questo sentire o pensare partecipasse alla costruzione di ciò che osservavo.

Addio al concetto di neutralità terapeutica! ed in più iniziava ad assumere consistenza la consapevolezza di come il partecipare alla dinamica interattiva può contribuire a innescare processi evolutivi ma anche no.

Il mio approccio al costruttivismo rischiava di condurmi ad assumere posizioni corrette sul piano formale ma così teoriche da non permettermi di essere in relazione con chicchessia. Lo spettro dell’oggettivazione si ripresentava in me questa volta attraverso l’uso che di questi aspetti facevo nella relazione con i pazienti.

La mia possibilità di essere in relazione non era connessa soltanto con il modello teorico di riferimento adottato, ma anche con la possibilità di far uso di me stesso nella relazione.
Dover avere a che fare anche con le mie emozioni, sentimenti e percezioni, la mia

corporeità, di dover includere cioè tra i fenomeni osservati anche me stesso inteso come individuo che partecipa al proprio vivere e contribuisce a costruire la realtà che lo riguarda.
Dare voce, rendere dicibile quanto scaturiva da questo incontro con la mia corporeità non fu cosa semplice. Questo “me stesso” con cui mi confrontavo era quanto di più bizzarro e sconosciuto avessi mai potuto conoscere. Come confrontarmi con questa realtà?

Tutto ciò mi ha portato trovarmi da un lato a potere costruire dentro di me mappe che mi permettevano di entrare in rapporto con situazioni cliniche molto gravi, ad osservare che ero in grado di poter interagire in contesti caratterizzati dalla presenza di sofferenza. Dall’altro tuttavia arrivavo sistematicamente ad una sorta di punto cieco: non trovavo risposta alla questione di ciò che riguarda l’avere a che fare con le proprie emozioni.

Nonostante il continuo rimando nel corso della mia formazione da parte dei didatti a porre attenzione agli aspetti costitutivi del sé del terapeuta e alla loro importanza nell’amplificare le capacità del terapeuta ad usare se stesso nel contesto terapeutico, mi mancava il modo attraverso cui trasferire questa affermazione così teorica sul piano dell'esperienza personale.

Disponevo di molti strumenti per individuare mappe costrutti ed aspetti formali relativi alla relazione senza tuttavia avere chiaro come poterne usufruire in termini operativi.
In altre parole disponevo di strumenti per spiegare le cose senza avere quelli necessari per vivere le cose e per scoprire la differenza tra il vivere le situazioni e lo spiegarle.

Certo la posizione del Terapeuta appare privilegiata rispetto a quella del paziente e l'idea di poter spiegare quanto accade dinanzi a lui può essere di giovamento alle persone che a lui si rivolgono. Ma questa posizione può senz’altro alimentare il senso di onnipotenza del terapeuta. Nella mia esperienza tutti i tentativi di spiegare all'altro, sia che si tratti di un sistema individuale che di un sistema familiare, sono stati fallimentari.
L'atteggiamento del terapeuta impegnato a spiegare diventa il più delle volte un ostacolo all’espressione degli aspetti evolutivi della relazione terapeutica ed il sapere sulla relazione non aiuta a vivere nella relazione.

Qui torna il tema della autoriflessività.
Cosa vuole dire vivere nella relazione?
Alla ricerca di una risposta a questa questione ho lavorato a lungo con i miei maestri. Cercavo di osservare ciò che facevano per cercare di comprendere il significato ed il perché di ciò che essi andavano facendo nei contesti di terapia. Presumevo di riuscire così a fare qualcosa di simile a loro. È stata certo un'esperienza molto ricca per me in quanto mi ha posto nelle condizioni di osservare i limiti di questo modo di procedere. Se il punto è il modo in cui il terapeuta è nella relazione, ne deriva che il prevalere degli aspetti imitativi allontana drasticamente questa possibilità
O procedevo all'interno di una prospettiva imitativa che implicava un fare uguale a quello di altri ed allora non ero in rapporto con me stesso, con le mie sensazioni, percezione e idee o dovevo affrontare la solitudine di una via autoriflessiva per potermi interrogare su quanto avviene in me mentre sono in una relazione terapeutica.

L’essere in relazione chiama in causa il modo in cui io sento e il modo in cui io mi pongo in relazione a ciò che sento. Questa consapevolezza mi ha spinto a cercare strumenti che all’interno del cosiddetto pensiero sistemico non riuscivo ancora a trovare.

Non ne ricavavo informazione su come io potessi avere a che fare con le mie emozioni e con tutto quello che avviene dentro di me e che si attiva e prende forma nella situazione di incontro terapeutico.
Ho potuto affrontare questo limite attraverso il contributo del pensiero di uno psicoanalista, il Prof A.B.Ferrari, che ho incontrato quando venne a svolgere un lavoro di supervisione sul lavoro con i pazienti psicotici nel servizio dipartimentale di salute mentale in cui io lavoravo.
Con lui e con le sue ipotesi ho lavorato a lungo per quel che riguarda il trattamento di pazienti psicotici, oltre a 6 anni di analisi trisettimanale. Ma ciò che aveva indubbiamente attratto la mia attenzione era la scoperta che con le sue ipotesi potevo disporre di strumenti per avere a che fare con me stesso e per entrare in rapporto con la mia corporeità intesa non come corpo-soma, ma come corpo vissuto, corpo dotato di sensazioni emozioni percezioni sentimenti.

In quanto vivo non posso non considerare l’alterità. L’alterità fa parte della mia soggettività.
Credo che non si possa considerare l’individuo se non all’interno di una relazione. Ma una relazione con chi?

Questo è stato un elemento importante nella mia storia.
Ciò che fino a quel momento non avevo preso in considerazione era di poter includere me stesso tra le persone esistenti al mondo! E questo aveva generato le difficoltà e i limiti di cui parlavo. Avevo sviluppato una attitudine a considerare le cose che accadono fuori di me quasi che io non appartenessi a questo mondo.
E’ stato un incontro abbastanza delicato quello con me stesso, una relazione piuttosto complicata...va avanti da anni e mi auguro che possa andare avanti per tutto il tempo che mi è concesso. Se voi aveste la possibilità di incontrare voi stessi ve lo raccomando: è un ottimo metodo per dire che la vostra vita è la vostra e non di qualcun altro che vive per voi. E’ un modo di alimentare e di godere del piacere di vivere la propria vita.
È forse a partire da queste considerazioni che ho sviluppato una particolare attenzione al tema della relazione mente-corpo.
Tema questo che viene collocato il più delle volte nel più ristretto ambito dei fenomeni psichici definiti “disturbi psicosomatici”
Comunemente nelle diverse discipline psicologiche, inclusa la psicoanalisi, viene spesso elusa la possibilitá di prendere in considerazione la relazione corpo-mente

come parte strutturante di qualsiasi processo di pensiero. È forse questa una attitudine che trova un solido ancoraggio, all’interno della tradizione culturale e scientifica del pensiero occidentale, per cui il corpo viene relegato costantemente nell’implicito. La conseguenza di ciò è che troppo spesso alla fisicità ed alla corporeità non rimane altro destino che di essere trascurata da chi si occupa degli aspetti psicologici. Sebbene nelle teorie sistemiche il corpo e la corporeità vengano inserite come implicito costituente di ogni relazione, non sempre il tema dell’unità funzionale costituita dalla relazione corpo-mente viene sufficientemente considerato come elemento fondante ogni possibile interazione umana.

Forse il paradosso nasce proprio con l’uomo: è insito nel fatto che noi siamo allo stesso tempo quelli che possediamo il nostro corpo e al contempo noi siamo il nostro corpo.
Ho dovuto prendere in considerazione questo paradosso e dover prendere in considerazione me stesso mi ha dato l’opportunità per osservare come questo me stesso entra in gioco nella costruzione dei processi interattivi nelle situazioni di terapia individuale e familiare.

Questo per me è un tema attuale che avrei piacere confrontare con chi fosse interessato.

Penso che sebbene lavorare con l’individuo o la famiglia risponda a due modalità tecnicamente differenti qui si pongano questioni che se ragionevolmente approfondite e considerate possano aiutarci a superare l’alternanza o peggio l’opposizione tra individuo ed intersoggettività.

Non c’è nulla che non si crei nell’intersoggettività che non contenga anche l’individualità. Non riesco proprio a condividere che all’interno di una cultura della relazione cosi come noi la intendiamo si possa ancora sostenere che le relazioni “causino” l’individuo. Questo significa reintrodurre una relazione lineare proprio là dove pensavamo di volerla superare. La relazionalità è qualcosa che ci investe costantemente, che non può essere distinta più di tanto, e tutt’al più, come dice Varela, dobbiamo chiederci come sia possibile all’interno di un universo relazionale riesca a definirsi un individuo.

Questo significa non tanto osservare come gli altri determinano l’individuo ma come l’individuo all’interno dell’universo di relazioni in cui è immerso riesca a definire se stesso, definire i propri valori, fare le proprie scelte, pagare un prezzo per le scelte che fa nell’ambito del contesto in cui si trova a vivere.

Credo che uno dei limiti del costruttivismo sia consistito nell’individuare l’osservatore come l’unico creatore della realtà che andava osservando. Diceva Von Foerster: “Prima ci sono io e poi viene il mondo”, affermazione emozionante ma che nel tempo ha mostrato il suo limite. In tal modo c’è infatti il rischio di ricreare nella relazione terapeutica una unidirezionalità. Il terapeuta diventa il solo artefice di ciò che accade alla famiglia. Questo è un rischio molto pericoloso da correre.
Si pone allora la questione di come poter entrare in questo universo conversazionale. Questione che confluisce anche nella ricerca da parte nostra di sistemi atti ad identificare questo individuo che siamo noi stessi. Questo individuo che crea le interazioni e che nelle interazioni si crea, un individuo che non può tener conto della propria emozionalità e che a partire dal dialogo con se stesso può usufruire e disporre delle opportunità relazionali che il contesto di vita mette a disposizione.
Quanto detto ci spinge a considerare di più e meglio le ipotesi che noi utilizziamo per formulare un concetto di individuo e le teorie che considerano la dimensione dell’intersoggettività.

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