Basate sulla scienza, Basate sull’evidenza, Vulnerabilità, Diritto, Diversità, Feto, Transessuale: Donald Trump, il Presidente degli Stati Uniti, ha proibito al Center for disease control and prevention, la massima autorità sanitaria del Paese che governa, l’uso di queste sette frasi e parole. Una vera e propria blacklist sottoposta agli uomini di scienza statunitensi. Ogni considerazione basata sull’evidenza di questa proscrizione linguistica si propone come sospesa tra la tragedia, che a qualcuno potrebbe derivare dal ricordo dei tragici tempi andati del Ministero della Cultura Popolare di mussoliniana memoria, e la comica, che indurrebbe a seppellire la vicenda sotto il peso beffardo di una grassa risata. Ma dal momento che il provvedimento di Trump mira a limitare il dibattito intorno a temi scientifici delicati e innovativi, in particolare riferiti a bioetica e diritti civili, è necessario riflettere su chi e cosa la vicenda esprime.
Partiamo dal protagonista della vicenda.
Trump, l’uomo dai capelli rossi, tinti e cotonati, parente non tanto lontano di una macchietta dell’avanspettacolo italico politico-pubblicitario che pure nei capelli e nel supposto vigore sessuale ha trovato e, purtroppo, trova modo di compensare i suoi atavici complessi di inferiorità a danno di molteplici, troppi, sprovveduti, è molto di più del rappresentante del potere della Nazione più potente dell’Occidente.
È uno dei più rappresentativi prodotti politici di quella cultura contemporanea fondata sull’abiura del legame, delle visioni teleologiche, popolata da quegli ultimi uomini di cui parla Nietzsche (1883-1885), ripiegati su se stessi, spettatori inermi, se non tragicamente consenzienti, del declino del legame con l’altro, senza identità, tradizioni, capacità critica e culturale, dominati dalla logica del profitto all’interno di un capitalismo tecno-nichilista (Magatti, 2009), dominati dal tempo breve e non medio o lungo del pensiero, da una supraligenza che non sa trasformarsi in intelligenza (Vallario, 2008), che frantuma le relazioni affettive e solidali. Trump, insomma, è la quintessenza macrosistemica, per dirla alla Bronfrenbrenner (1979), di quell’ipoumano (Vallario, 2016) verso il quale, neanche tanto lentamente, stiamo scivolando.
L’uomo dai capelli rossi è, insomma, la cartina di tornasole di una realtà che sa pensare, esprimersi e agire con inquietante semplicità: un archetipo, e in quanto tale per noi psicoterapeuti degno di attenzione, di quell’inquietante mondo che, seguendo Benayasag, “produce, paradossalmente, la prima grande società dell’ignoranza” (2003).
Passiamo all’oggetto, se si preferisce, alla sostanza della vicenda.
La vicenda esprime, da un certo punto di vista, l’affermazione di un pensiero sempre più a una dimensione (Marcuse, 1967): un pensiero che quando produce si rivela semplice e lineare, che nella sua sostanza non pensa (Fusaro, 2017), non sa dissentire, cioè pensare in maniera diversa, dal pensare comune, che trova nella linearità della semplicità il suo più compiuto spazio di produzione riflessiva.
Vietare all’uomo di scienza significa imporgli di non praticare i suoi principali principi etici, definiti dal dubbio, dalla curiosità, dal confronto e dal controllo pubblici, dalla creatività.
Significa, in un clima di proibizionismo medievale o, per essere più contemporanei, fascista, abdicare il suo pensiero al cum sensus, a quello che dice il senso comune, per esempio che non esistono più le mezze stagioni, che il sole sorge a est, che l’acqua è bagnata, in una logica lineare e semplice, inquietante.
Significa fare trasparire in controluce il tentativo di ridurre la scienza a realtà epifenomenica della politica: per questa ragione, ogni uomo che, come il terapeuta, tenta di muoversi nell’alveo del pensiero scientifico non può non dirsi inquieto di fronte a questa onda lunga del pensiero unico.
L’inquietudine diventa un dis sentire, un sentire altro, diverso, alternativo, all’interno del quale abbiano pieno diritto di cittadinanza proprio alcune di quelle parole come Basate sulla scienza, Basate sull’evidenza, Vulnerabilità, Diritto, Diversità, vietate da quella tragica macchietta dai capelli rossi. Diventa la necessità di accantonare un pensiero semplicistico a vantaggio di una visione complessa che, a partire dall’emergente, tracci traiettorie complesse alla ricerca di quello che è immerso. Una visione che sia sostenuta non da un pensiero che ripete senza riflettere, ma da un pensiero che produce perché riflette, anche con lentezza.
Per restare nel nostro recinto, viene in mente l’inquietudine avvertita da Freud, come sempre grande anticipatore, in un Poscritto del saggio La questione dell’analisi laica, uno scritto del 1926,: il padre della psicanalisi parla degli americani “gente incolta”, che sacrificano sull’altare dell’efficientismo il dovere della lentezza.
È tempo di trasferire la necessità di questa inquietudine nel nostro setting.
Già la cibernetica di second’ordine nel sottolineare il ruolo attivo dell’osservatore nella costruzione della realtà osservata, richiama il terapeuta, che agisce su mappe che costituiscono il suo territorio d’azione ma non corrispondono al territorio reale, al dovere di tenere nel conto la pluralità dei punti di vista, di non confezionare una conoscenza immutabile e incontrovertibile, di cogliere una “trama alternativa” alla storia ufficiale (Minuchin, 1996) costruita sulla sofferenza.
A partire da quest’inquietudine, è tempo di aprirsi alla suggestione di una Cibernetica di terzo ordine: dopo essersi collocato fuori dal sistema terapeutico, schermandosi dietro il suo sapere, dopo esserci entrato, definendo l’attuale posizione co-costruttiva e collaborativa dentro il sistema, è tempo che il terapeuta guardi anche oltre, fuori al sistema, al macro-sistema (Bronfrenbrenner, 1979). L’inquietudine del terapeuta può diventare un elemento di arricchimento, che porti il sistema terapeutico in una complessità capace di legare in una trama alternativa i fili di narrazioni altrimenti scollegati.
L’idea di un pensiero clinico rigoroso si fonda sull’idea non di un pensiero forte e unico, dotato di oggettività assoluta, ma di un “pensiero debole”, che non può pretendere di affermare verità stabili e definitive, accettando il suo carattere di provvisorietà. Il lavoro clinico, in questa prospettiva, non ricerca la verità, ma è proteso all’individuazione di una chiave di lettura tra tante possibili: un tentativo morbido, che tenga nel conto la pluralità dei punti di vista, non confezioni una conoscenza immutabile e incontrovertibile.
Un pensiero che non può abiurare la sua natura complessa.
Che non può non riconoscersi, in questo sforzo, una natura creativamente contro-culturale.
Che non può non essere inquietato dall’inquietante.