Intervista a Carmine Saccu di Wilma Trasarti Sponti settembre 1986
D. Qualcuno dice che sei un “ipnotista naturale” perché usi un linguaggio suggestivo, che agisce a diversi livelli. La domanda allora è questa: quale controinduzione usi nel lavoro con i bambini psicotici e con la forza ipnotica delle loro famiglie?
R. Non so se lavoro, come qualcuno dice, in senso ipnotico; molto probabilmente ciò è implicito nella caratteristica della mia voce o nel fatto che utilizzo le pause. Le pause per me sono molto importanti per dare la possibilità, a chi mi sta difronte, di avere uno spazio, dei momenti associativi, che poi vengono utilizzati nel corso della seduta. Di certo so che le famiglie hanno una forza ipnotica che si traduce in me in un disagio, per cui, quando me ne accorgo, esco dalla stanza. Quando rientro devo trovare qualcosa che sia imprevedibile per me e per la famiglia. L’obiettivo è quello di distogliermi, se vuoi, dal “pendolino” ossia da quello su cui ho fissato prevalentemente l’attenzione e che mi dà un senso di impotenza. Cerco allora di creare una situazione che sia diversa, che abbia una logica diversa.
Mi sono più volte reso conto che modificando un assetto contestuale, la struttura rimane uguale. Questo mi conferma la posizione della famiglia in chiave ipnotica o, se vuoi, in chiave diagnostica mi dà conferma del livello di rigidità o flessibilità.
Sul piano concettuale quello che tu chiami induzione ipnotica della famiglia, e che può avere vari gradi di intensità, in rapporto alla rigidità della struttura, io la percepisco come provocazione nel momento in cui sono in grado di avvertire il disagio che essa mi provoca.
Quello che tu chiami controinduzione è per me una controprovocazione che attuo attraverso una ridefinizion contestuale nell’ “hic et nunc” della seduta.
Ad esempio la trasformazione di un contesto, dove sia prevalente l’utilizzazione della parola, in un contesto dove sia prevalente il movimento, come il gioco, mi dà analoga indicazione sulla struttura, ma mi permette, entrando ed uscendo dalla seduta, di introdurre una serie di ridefinizioni che provocano la struttura stessa.
La complessità della rete ridefinitoria, disarticola la coerenza dell’”induzione ipnotica” della famiglia introducendo confusione.
Il passare il gioco ridefinitorio attraverso il paziente designato psicotico aumenta la possibilità di sottrarsi all’induzione ipnotica.
D. Il tuo tentativo costante è quello di modificare la struttura?
R. Il mio tentativo costante è di capire “me” rispetto a loro; le difficoltà che posso avere rispetto all’inserirmi o no in una logica di cambiamento. Questo permette di prevenire un irrigidimento del sistema terapeutico.
D. Partendo dalla tua formazione di neuropsichiatra infantile, in quale modo la tua esperienza di psicoterapeuta e didatta relazionale ha modificato il tuo atteggiamento diagnostico nei riguardi del bambino?
R. La mia formazione iniziale mi procurava una certa insoddisfazione per lo sbilanciamento tra livello diagnostico e livello terapeutico. Inizialmente avevo “buttato al mare” tutta l’esperienza precedente; mi sembrava infatti che la nuova chiave interpretativa sistemico-relazionale mi desse la possibilità di ottenere più risultati sul piano terapeutico. Successivamente le cognizioni teoriche maturate sul piano dei livelli di complessità ed una più attenta riflessione sulla filosofia del cambiamento mi hanno permesso di integrare differenti aspetti del mio iter formativo, con una maggiore sensibilizzazione al processo evolutivo individuale è sempre in stretta correlazione col processo evolutivo del sistema; concretamente, nel lavoro con i bambini, la diagnosi, relazionale diventa per me impossibile.
D. Quali sono gli elementi che prendi in considerazione per definire come psicotica la famiglia, ad esempio, di un bambino con una psicosi d’impianto?
R. Più che di famiglia psicotica amo parlare di famiglia con transazioni psicotiche. Questo comporta una attenta ricerca dei livelli o delle aree di inconguità nelle diverse sequenze comunicative sia verbali che analogiche. Seguendo una concettualizzazione trigenerazionale cerco di individuare una o più ipotesi che mi convincano del “senso”, o se, vuoi, della necessità per quella famiglia di darsi o mantenere quella struttura.
Il linguaggio è un elemento diagnostico molto importante se la sua formulazione comunica contemporaneamente livelli di indifferenziazione o di fusionalità.
Su una base di ritardo o insufficenza mentale è possibile che si organizzi una sistema comunicativo a transazione psicotica.
D. Lavori in seduta con tutta la famiglia trigenerazionale, se ti è possibile, o ti basta avere una parte del sistema o del sottosistema?
R. Nelle strutture pubbliche non è sempre possibile seguire il modello in cui tutta la famiglia deve essere presente in terapia. Più che modello di terapia con la famiglia è importante la elaborazione di logiche ridefinitorie che comprendano tutti i membri della famiglia. La concettualizzazione della famiglia trigenerazionale (vedi Bowen) mi aiuta molto; mi permette di introdurre una serie di modalità terapeutiche, se vuoi provocatorie, che possono avere una loro spiegazione in questa rete. Quindi, quando mi è possibile convocare tutta la famiglia trigenerazionale lo faccio, quando non mi è possibile riesco a lavorare anche senza, purchè la “personificazione” dei membri assenti sia, all’interno di questa logica, così attiva da far si che i membri assenti siano interattivamente presenti.
Nelle istituzioni pubbliche, spesso, poi, la propria parte del lavoro serve per dare la possibilità alla famiglia di motivarsi alla scelta di terapia familiare; questa scelta può arrivare anche dopo un anno; è come se loro, nei tentativi retroattivi, avessero bisogno di provare dieci altre cose che falliscono.
D. Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi nel lavoro con i bambini e le famiglie a transazione psicotica; ossia pensi di “guarirli”, di adattarli meglio, o che altro?
R. In genere credo che con un bambino psicotico non sia sufficiente la terapia familiare; può però essere importante una modalità terapeutica che sia sovrasistemica. Se un bambino psicotico ha passato molti anni deprivato di una serie di esperienze, questo aspetto risulta evidente nel comportamento. Le tappe evolutive presuppongono una integrazione dei diversi livelli motorici – cognitivi – emozionale; anche questi seguendo un ordine che va verso una maggiore complessità.
Una corretta terapia familiare apre spazi esperenziali in cui è utile la partecipazione di operatori sociali con singole competenze; parlo di logopedisti, insegnanti eccetera. Il punto significativo diviene allora quello di tessere una logica che sia coerente e dove tutte le persone che vengono inserite nel lavoro siano interessate a portare avanti la medesima lettura.
D. Come intervieni in questa serie di reti?
R. in genere faccio in maniera tale da lavorare insieme alla famiglia e a tutti questi operatori; oppure lavoro con la famiglia trigenerazionale da un lato più tutte le strutture della scuola che possono essere: operatori, insegnanti e direttrice quando è possibile, oppure insegnanti, assistente sanitario e medico del CIM. Alle volte è possibile farlo perché sono loro stessi che te lo richiedono, altre volte sono io che mi metto in contatto con loro.
Se è vero che lo psicotico “ sminuzza” è anche vero che lo sminizzamento in tutte queste realtà è molto sintonico con lo sminuzzamento dello psicotico. Il fatto di vederseli tutti insieme non è altro che una trasposizione, nello spazio, di uno sminuzzamento già esistente, che non permette integrazioni. Tutti gli operatori lavorano a “pallini”, ognuno stimolato dal sistema familiare a dare una risposta di “onnipotenza”.
D. Quali sono le tecniche che utilizzi per raggiungere i tuoi obiettivi di interazione?
R. Premesso che la terapia è rapporto, tutte le tecniche che mi permettono di instaurare un rapporto, le utilizzo a seconda dei contesti. In questa accezione la tecnica è una maniera di usare il proprio “sé” in terapia. Quindi posso drammatizzare, manipolare tattilmente, provocare eccetera. L’importante è che tutto ciò sia coerente con la logica sistemica introdotta.
Nella terapia che hai visto stamattina, la bambina, che ha modalità relazionali di tipo psicotico, presenta un atteggiamento fobico per l’acqua. Partendo da questo elemento, in seduta ho cominciato a giocare, ed ho fatto giocare, ed ho fatto giocare molto loro, con le bambole e l’acqua al fine di evidenziare ed attivare le energie della famiglia. Ho poi dato indicazioni alla madre di fare il bagno, a casa, insieme alla bambina. Formulando questa richiesta il pensiero terapeutico oltre a tener presenti i vari livelli relazionali di questa famiglia, tiene presente anche aspetti della formulazione
Kleiniana che comportano livelli tattili e simbolici (vedi rapporto con il seno).
Il punto diventa quindi come dare competenza ai genitori su cose che loro possono dare, ma credono invece che non abbiano la possibilità di dare.
D. Nel caso specifico della psicosi autistica quale è la tua esperienza con questi bambini?
R. Con i bambini autistici è molto più tangibile il senso di impotenza proprio perché loro rendono evidente la negazione della relazione: tanto più è negata la relazione tanto più è grosso questo senso di impotenza e quindi la provocazione a livello del terapeuta. Allora si presuppone una scelta direi “tattica”. Per esempio se vedi lavorare Whitaker, lui utilizza la decentralizzazione oppure altri utilizzano la centralizzazione. Bisogna conoscere chiaramente cosa significa centralizzare e decentralizzare. Essere coerenti con una decentralizzazione presuppone un’aderenza fra quello che si pensa e quello che si sente; non che la cosa che pensa poi la si sente diversamente altrimenti avviene che mentre tu stai pensando di decentralizzare l’occhio ti ritorna alla verifica di quello che è la tua relazione e stai in ansia perché questa relazione non avviene.
Questo è un processo che richiede un buon lavoro sui terapisti perché il terapista ti dice che sta facendo una cosa ed in realtà tu come supervisore, metti in evidenza che ne sta facendo un’altra. Esplicitare e provocare livelli di incongruenza fa parte della opera del didatta e del supervisore; spontaneamente è molto difficile riconoscerli.
D. Qual è l’aspetto di coterapia che puoi avere con un bambino psicotico?
R. Il fatto che i bambini possano essere dei coterapeuti è abbastanza vero, ma come è vero con tutti i pazienti. Essendo il sintomo un messaggio a due livelli, ti indica la possibilità, la strada del cambiamento, ma non ti dà niente in regalo perché tu possa attuarlo; ti dà solo delle indicazioni in termini di rigidità e di flessibilità. Credo che la caratteristica che un terapeuta che lavora con questi bambini debba avere sia l’attenzione a quello che il bambino propone.
D. Che cosa suggerisci, quando si lavora con i bambini, specie a quegli allievi e a quei terapeuti che sentono il bambino come una “bomba” e pensano che se sta fermo da una parte con un foglio ed una matita tanto meglio?
R. Il problema del terapeuta può essere caratterizzato da tematiche conoscitive e da tematiche emotive. Entrambe le tematiche ti portano verso i genitori e non verso il bambino per cui fin dalle prime battute il bambino diviene un oggetto, il che significa praticamente che si parla del bambino e sul bambino e non si parla con il bambino.
Se il bambino è il paziente designato devi, in qualche maniera, passare attraverso lui, il che significa confrontarsi con le proprie ansie di toccare il bambino. Una delle modalità che uso più frequentemente è quella di parlare al bambino come se sui fosse in grado di comprendermi completamente rispetto a qualsiasi proposizione io faccio.
Questo significa che la mia voce non è una voce rivolta né ad un malato né ad uno che non mi capisce. Contemporaneamente utilizzo le mani; lo prendo in braccio “rigirandolo”, “strapazzandolo” “solleticandolo” fino ad ottenere una risposta corporea.
Questa, che è una tecnica terapeutica di contatto, è inserita in una logica dove tu cominci a tessere una rete, o una tela di ragno come dicono che siano le mie terapie. Tessi, tessi in modo che poi tutto quello che avviene concorre ad aumentare la complessità.
In questo senso tu stai allora lavorando a più livelli perché stai cercando un rapporto con il ragazzo che non presuppone necessariamente una risposta esplicita di definizione della relazione. Il fallimento, infatti, avviene quando tu proponi ad uno psicotico una relazione esplicita, quando lui, per definizione, deve negarla (vedi Jay Haley nel libro “Strategies of Psychotherapy”).
Poiché la sua specialità è quella di negare la relazione, tu devi seguire lo stesso percorso. Lo tocchi negando che lo stai toccando. Lo stai toccando infatti nell’ambito di un’altra costruzione che ti permette poi di essere garantito sulla sua risposta. La sua risposta non ti interessa a livello della definizione della relazione. Il livello della negazione della relazione, come definizione della stessa, è allora rispettato (quindi coerente e non controsistemico), il livello del contatto fisico è una evidenza che non può essere negata e di cui non si chiede conferma.
D. Ritieni che nell’ambito di un training ci debba essere uno spazio/tempo specifico dedicato a familiarizzarsi con il lavoro con i bambini?
R. Chi lavora partendo da neuropsichiatria infantile è facilitato dal fatto che nel triangolo la proposizione della malattia del bambino è sempre chiara per cui a me diventa automatico il fare queste integrazioni, anche se il paziente designato è un altro membro della famiglia.
È importante, nel lavoro con le famiglie, conoscere la posizione di ogni membro rispetto al ciclo vitale della famiglia ma anche rispetto al ciclo vitale di ciascun membro. Quando arrivi al bambino, devi conoscere la psicologia dell’età evolutiva; se non hai parametri riferiti è molto difficile che tu possa utilizzarlo nei termini specifici dell’”hic et nunc” della relazione. Devi cogliere esattamente quello che succede nella seduta e quello che succede nella seduta con i bambini è quello che tu mi dici che gli allievi spesso non utilizzano. Per poterlo utilizzare hai bisogno di sapere. Non so per esempio quante persone di quelle che fanno terapia familiare vanno ai giardinetti pubblici, si siedono e si mettono a osservare i bambini che giocano o quanti si siedono a un bar di giovani e si soffermano a vedere la utilizzazione che fanno della cinta di El Charro, dei 501 (*) e di cose che fanno parte di un codice.
Per entrare in relazione bisogna avere un linguaggio comune. Ad esempio ci sono genitori che impediscono al bambino di vedere la televisione, poi quando lui va a scuola tutti parlano intorno ad un evento e lui ne è tagliato fuori. Da una parte lo proteggono dagli inputs televisivi, ma dall’altra gli tolgono la possibilità di condividere, di riscontrarsi o di fare gruppo.
D. Ti sembra quindi semplicemente una difficoltà di integrazione di quanto gli allievi già sanno?
R. Sicuramente gli allievi, nel corso dei loro studi, hanno appreso una serie di cose che possono essere utili. Il problema del didatta allora è come permettere loro di utilizzarle e non favorire invece condotte “parrocchiali”. Questo è spesso inerente più a tematiche di territori ed altri livelli sistemici che non strettamente ad un problema didattico.
Ci sono poi allievi che si mettono in testa, ci credono e te lo dichiarano che loro vanno meglio con gli adulti che non con i bambini però, quando tu lavori con loro ti accorgi che non è vero perché nella loro esperienza personale, perlomeno con nipoti o cugini, hanno elaborato modalità di rapporto valide solo che pensano di non riuscire a trasferirle in un contesto terapeutico. Questo capita spesso a terapisti che sono portati ad avere un alto livello conoscitivo, che chiedono informazioni continue alla famiglia immaginando che quella sia terapia mentre spesso è una modalità per difendersi dalla relazione.
D. Il lavoro con i bambini psicotici differisce dal lavoro con gli psicotici adulti?
R. Il bambino ha un livello di dipendenza implicito nella definizione di bambino. Credo che nell’un caso e nell’altro esista una possibilità di entrare in una famiglia attraverso una modalità provocatoria o controprovocatoria che permetta di non accettare i diversi livelli di incongruenza che loro di propongono. Occorre quindi una capacità ridefinitoria molto sviluppata proprio perché, sia nelle famiglie con bambini psicotici, sia nelle famiglie con psicotici adulti, i livelli che loro ti propongono sono sempre molto numerosi e complessi. Tu devi essere capace di essere copresente, nella tua strategia, con altrettanti livelli; è quindi il livello di complessità che conta e non la differenza tra i due.
D. C’è qualche altra domanda che vorresti che ti facessi?
R. Credo che dovresti leggerti quel mio articolo “Il bambino da oggetto di cura a strumento di formazione relazionale” (1), dal quale puoi estrapolare la teorizzazione. Parte dell’idea che lo psicotico segue il principio della relazionalità assoluta mentre la cultura medica ti insegna che il massimo dell’isolamento. Questa definizione comporta una serie di conseguenze molto rilevanti rispetto alla lettura che avevi appreso fino a quel momento; la convinzione “scientifica” del suo isolamento è talmente radicata dentro, che è all’origine de quelle incongruenze nella terapia, di cui parlavamo prima.
Quanto detto prima quindi va letto in questa ridefinizione.
È come riorientarsi rispetto a una geometria diversa, che può essere molto vicina al delirio ma che comunque mi permette di costruire reti più efficaci rispetto a quelle che mi erano state insegnate e che mi portavano ad un senso di impotenza.
D. E’ un peccato che questa domanda te la abbia posta per ultima; ci faremo condurre da Ha Tok, il personaggio del tuo articolo, per aggiungere un altro livello di lettura a questa intervista e quindi ricorsivamente ripartire dalla fine.
(*) Un tipo di jeans
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Saccu, c. “Il bambino: da oggetto di cura a strumento di formazione relazionale”, in Atti del II° Convegno Italiano dell’Istituto di Terapia Familiare di Roma, La Formazione Relazionale, ed. Roma ITF srl, 1985.
ATTRAVERSO LO SPECCHIO – Rivista di Psicoterapia Relazionale del Centro per la Psicoterapia della Coppia e della Famiglia, n. 14 – Anno 4 – Luglio-Settembre 1986